Introduzione e definizione

L’osteoporosi premenopausale viene definita come un’osteoporosi a insorgenza prima della fisiologica cessazione della funzione gonadica, in assenza di qualsiasi causa identificabile che possa sottendere la riduzione della densità minerale ossea. Infatti, vi sono numerose malattie, condizioni (Tabella 1) oppure farmaci (Tabella 2) che sono in grado di determinare una riduzione della densità minerale ossea non solo nella donna in premenopausa ma anche nella donna in postmenopausa e nel soggetto di sesso maschile. Osservando queste due tabelle ne deriva che un’attenta anamnesi è fondamentale per escludere patologie o farmaci che possano costituire il fattore eziologico. Nella trattazione seguente viene pertanto fatto riferimento a un’osteoporosi che abbiamo classificato come idiopatica.

Tabella 1 Malattie che possono causare osteoporosi premenopausale
Tabella 2 Farmaci che possono causare perdita di massa ossea. a, farmaci che possono aumentare la propensione alle cadute e, pertanto, facilitare le fratture

Percorso diagnostico

La massa scheletrica (e, pertanto, la densità minerale ossea, BMD) aumenta rapidamente in condizioni fisiologiche durante l’infanzia e soprattutto durante l’adolescenza. Il raggiungimento di un adeguato picco di massa ossea è stato sempre considerato un fattore importante nel determinare l’osteoporosi e il conseguente rischio di frattura. Le modalità attraverso cui porre la diagnosi di osteoporosi premenopausale o, comunque, di osteoporosi del giovane adulto sono molto dibattute. Non vi è dubbio che chi ha subito fratture in assenza di traumi debba essere considerato affetto da osteoporosi premenopausale. Il problema, tuttavia, è complicato dal fatto che le fratture periferiche possono essere relativamente frequenti in giovani la cui attività motoria, sia ludica che agonistica, è sicuramente superiore a quella degli adulti delle decadi più avanzate. In tale circostanza il rilievo di fratture multiple va differenziato da quello anamnestico di un singolo episodio.

Anche per ciò che riguarda i criteri diagnostici densitometrici da utilizzare non vi è accordo unanime. Nel 2019 la società internazionale di densitometria clinica (International Society for Clinical Densitometry, ISCD) scoraggiava l’utilizzo del valore densitometrico da solo per porre la diagnosi di osteoporosi in uomini e donne di età inferiore ai cinquant’anni [1]. Incoraggiava, invece, l’utilizzazione di valori di Z-Score uguali o inferiori a 2 per la definizione di ridotta massa ossea in giovani adulti. Per contro, l’International Osteoporosis Foundation (IOF) raccomanda l’utilizzo delle stesse soglie utilizzate dalla World Health Organization, cioè T-Score uguale o inferiore a −2,5 alla colonna o al femore, per porre la diagnosi di osteoporosi nei giovani adulti che abbiano una causa riconosciuta di osteoporosi [2, 3]. La mancanza di criteri ben chiari per porre la diagnosi di osteoporosi in età premenopausale rappresenta un limite importante soprattutto per ciò che concerne la stima epidemiologica della malattia e l’eventuale soglia terapeutica.

Una volta che siano state pertanto escluse, mediante un’attenta anamnesi e un accurato esame obiettivo, le malattie, le condizioni e l’assunzione di farmaci che possano sottendere l’osteoporosi premenopausale, resta per esclusione la diagnosi di una forma di osteoporosi idiopatica. Anche in questa malattia, così come in altre, l’aggettivo “idiopatico” serve a mascherare la nostra incapacità di identificare una causa ben definita. Sotto questo aspetto gli studi di genetica sono riusciti a identificare numerosi disordini monogenici in grado di causare aumento della fragilità scheletrica. Gli esempi più comuni sono rappresentati dall’osteogenesi imperfetta, dalla sindrome osteoporosi pseudo-glioma o da altre malattie sostenute da mutazioni bialleliche o in eterozigosi di WNT1, mutazioni di PLS3 o di SGMS2 e altre ancora [4].

L’importanza di anomalie genetiche alla base della riduzione della resistenza scheletrica è messa in luce da almeno due studi. Nel primo studio, Collet e collaboratori, studiando 123 soggetti di ambedue i sessi con diagnosi di osteoporosi idiopatica, sono riusciti a identificare 11 pazienti con varianti nuove o rare dei geni COL1A1, PLS3, WNT1 e DKK1 e ulteriori 22 pazienti con varianti molto rare o nuove del gene LRP5 [5]. Nella seconda indagine, Cohen e collaboratori hanno esaminato 75 donne con diagnosi di osteoporosi idiopatica o ridotta massa ossea. Il sequenziamento dell’intero esoma ha permesso di identificare 8 soggetti con varianti in eterozigosi possibile causa della malattia o varianti di significato non determinato in geni noti per avere effetti sulla massa scheletrica (LRP5, PLS3, FKBP10, SLC34AA, HGD) [6]. La restante popolazione non aveva anomalie genetiche identificabili. Da quanto solo brevemente esposto sopra, appare chiaro che l’affinamento delle tecniche ridurrà sempre più il campo delle osteoporosi premenopausali classificate come idiopatiche.

Pochi gli studi che hanno valutato gli aspetti istomorfometrici di biopsie ossee di pazienti con osteoporosi premenopausale, anche se in genere la maggioranza delle indagini condotte propende per una riduzione della formazione ossea piuttosto che per un aumento della distruzione scheletrica. In questo ambito, gli studi recentemente condotti da Goetz e collaboratori sembrano suggerire che almeno in alcuni pazienti vi possa essere una relazione paradossa fra IGF-1 e tessuto scheletrico (nel senso di resistenza alla somatomedina) che contribuisce alla patogenesi della malattia e alla ridotta formazione ossea [7].

L’approccio diagnostico alle pazienti con osteoporosi premenopausale, comunque venga definita, non differisce in ogni caso da quello utilizzato nell’indagare i pazienti con osteoporosi postmenopausale e senile. I cardini sono rappresentati dalla valutazione clinica (principalmente attraverso l’anamnesi e l’esame obiettivo), la valutazione strumentale quantitativa e qualitativa ove possibile (mediante densitometria lombare, femorale e radiale, quest’ultima ove necessario, valutazione morfometrica vertebrale e calcolo del punteggio trabecolare osseo, trabecular bone score, TBS) e, infine, dalla valutazione metabolica (principalmente attraverso la valutazione biochimica, per escludere la esistenza di malattie in grado di determinare riduzione della massa ossea).

Nei pazienti al di sopra dei 50 anni noi possiamo calcolare il rischio di future fratture sia di femore, sia delle fratture maggiori sulla base di alcuni strumenti di calcolo come il DeFra, il FRAX, il Garvan e così via. Questi strumenti, tuttavia, non possono essere utilizzati per la stima del rischio di frattura in pazienti con osteoporosi premenopausale. Infatti, per esempio, il FRAX è stato validato solo per l’uso negli adulti al di sopra dei 40 anni e il Garvan solo per gli adulti al di sopra dei 50 anni.

Aspetti terapeutici

Per ciò che concerne la terapia, devono essere preliminarmente esposte almeno un paio di considerazioni. In rapporto alla condizione clinica o alla malattia è importante istituire un approccio personalizzato, poiché spesso ci troviamo di fronte a bambini e giovani adulti, specialmente se già riferiscono precedenti fratture, con problemi che vanno oltre il tessuto scheletrico. Pertanto, è necessario un approccio multidisciplinare centrato sul paziente, che possa vedere coinvolti non solo lo specialista delle malattie metaboliche dello scheletro, ma anche pediatri, ginecologi, nutrizionisti, psicologi, endocrinologi e così via, a seconda della situazione. Tutti gli studi epidemiologici e di intervento condotti fino ad ora indicano che è necessario fornire ai pazienti con osteoporosi premenopausale un adeguato apporto di calcio e vitamina D, suggerire una dieta bilanciata, soprattutto per quanto riguarda l’apporto proteico, e consigliare, infine, un’adeguata attività fisica. La scelta razionale della terapia farmacologica dell’osteoporosi premenopausale non è purtroppo basata sull’evidenza scientifica; ciò in virtù del fatto che, vista la rarità della condizione, mancano studi controllati eseguiti su casistiche di pazienti abbastanza numerose. In ogni caso, occorre considerare che, qualora somministrassimo farmaci a donne in età fertile, la possibilità che vadano incontro a gravidanza (e allattamento) deve essere tenuta in considerazione. In questo contesto occorre considerare che le attuali terapie impiegate nell’osteoporosi postmenopausale e senile non sono approvate per l’utilizzo in donne gravide o che allattano. Per ciò che riguarda, per esempio, i bisfosfonati in genere, gli studi negli animali hanno dimostrato un potenziale effetto negativo sulla crescita delle ossa lunghe del feto, in rapporto al fatto che i bisfosfonati sono in grado di attraversare la placenta [8]. Recentemente è stato, tuttavia, condotto uno studio di piccole dimensioni in cui non è stato osservato alcun effetto teratogenetico dei bisfosfonati, anche se non possono essere esclusi potenziali effetti negativi sull’incidenza dei nati vivi o sulle complicazioni neonatali [9]. Appare, pertanto, chiaro che i farmaci con lunga emivita non possono rappresentare la prima scelta in pazienti con osteoporosi premenopausale. L’utilizzo di farmaci a breve emivita sarebbe la scelta migliore. Tuttavia, occorre ricordare che questi farmaci (es. il denosumab e il paratormone, maggiormente il primo rispetto al secondo) sono caratterizzati da una rapida perdita di massa ossea alla loro sospensione. Pertanto, l’eventuale gestione di pazienti che hanno iniziato questo tipo di terapia ma che desiderano avere una gravidanza può rappresentare, all’atto pratico, una sfida non facile. Recentemente, tuttavia, cominciano ad apparire in letteratura con maggiore frequenza studi che affrontano il problema della terapia di pazienti in premenopausa affette da osteoporosi. Lo studio più completo a questo riguardo è stato condotti dal gruppo di E. Shane che ha trattato per un periodo di 48 mesi donne con osteoporosi premenopausale prima con teriparatide (24 mesi) e poi con denosumab. Gli incrementi ottenuti a livello lombare e femorale alla fine dei quattro anni di terapia sono stati significativi, raggiungendo valori di circa il 22% a livello lombare e di più del 9% livello femorale, mente nessuna variazione è stata riportata a livello radiale [10]. Vi sono delle notazioni da fare. La prima è che questo studio è basato sulla modificazione della densità minerale ossea e non sulla riduzione dell’incidenza delle fratture, come sarebbe auspicabile. Questo limite, tuttavia, è da ricondurre, come è stato detto prima, al fatto che il reclutamento di queste pazienti non è agevole e, pertanto, non viene raggiunta una numerosità tale da poter effettuare stime accurate sulla riduzione delle fratture. La seconda osservazione è costituita dal rilievo che tutte le pazienti arruolate assumevano estroprogestinici, a conferma dell’incertezza riguardo i possibili effetti dannosi nel periodo della gravidanza.

Conclusioni

L’osteoporosi premenopausale continua a rappresentare una sfida diagnostica sia per il medico di base che per lo specialista.

È necessario eseguire un’attenta valutazione clinica, radiologica e biochimica per svelare possibili cause che possono sottendere l’osteoporosi premenopausale. Una volta esclusa una forma secondaria di osteoporosi, vi dev’essere sempre il sospetto di una malattia su base genetica (es. osteogenesi imperfetta). Pertanto, quando si pone la diagnosi di osteoporosi idiopatica, sarebbe opportuno, comunque, eseguire un’attenta valutazione genetica, ove questa fosse possibile. Al fine di ottenere la migliore cura possibile di questi giovani pazienti è necessario un coordinamento con specialisti di numerose branche della medicina: esperti delle malattie metaboliche dello scheletro, pediatri, endocrinologi, ginecologi, ortopedici, genetisti, solo per citare le principali branche interessate.