Introduzione

Il magnesio è il quarto elemento più abbondante del nostro organismo (dopo calcio, potassio e sodio) ma, nonostante questo, viene spesso definito in letteratura lo “ione dimenticato”. Infatti, il magnesio non viene spesso dosato negli esami di routine e anche la letteratura in merito è deficitaria rispetto a quella di altri ioni che spesso determinano, in caso di carenza, ben noti segni e sintomi clinici, oltre ad avere una metodica di dosaggio ben validata e di ampio utilizzo [1].

Il magnesio risulta coinvolto in circa l’80% delle reazioni metaboliche intracellulari conosciute ed è quindi responsabile di numerose funzioni corporee, incluso lo sviluppo osseo e neuromuscolare, la trasmissione di impulsi nervosi, lo stoccaggio e utilizzo di energia intracellulare e proliferazione cellulare (figura 1). Il magnesio è fondamentale per il funzionamento delle polimerasi necessarie alla replicazione del DNA e alla trascrizione dell’RNA; risulta essere cofattore di tutte le reazioni che coinvolgono l’utilizzo di energia immagazzinata nell’ATP (inclusa la capacità di risposta cellulare a fattori di crescita); è un antagonista intracellulare del calcio, con il quale compete per i siti di legame in proteine e trasportatori; a questo proposito, determina un blocco dei canali ionici del calcio dei recettori NMDA, con riduzione della trasmissione glutammatergica. Infine, il suo continuo scambio dalla superficie ossea al plasma promuove la proliferazione degli osteoblasti e, quindi, l’apposizione ossea [2].

Fig. 1
figure 1

Azioni principali del magnesio

Magnesio: origine e steady state

Le principali fonti di magnesio sono i cibi di origine vegetale ma quantità e biodisponibilità sono influenzate da numerosi fattori, tra cui il suo contenuto nel suolo e i fertilizzanti utilizzati durante la coltivazione; naturalmente è più presente in cibi poco raffinati come cereali (frumento, avena, miglio) e pseudocereali (quinoa), legumi, semi oleosi (mandorle, pistacchi, arachidi) e cacao. Alcuni fattori ne aumentano la biodisponibilità come, ad esempio, la presenza nella dieta di fibre solubili (es. inulina o amido resistente) e la presenza di alcuni peptidi di derivazione lattea (da caseina e proteine del siero) mentre altri le riducono, come la presenza di elevate quantità di calcio nella dieta o la carenza di vitamina D. Le raccomandazioni circa il fabbisogno giornaliero di magnesio non sono uniformi tra i vari Paesi: ad esempio, i LARN italiani (che raccomandano un apporto quotidiano di 240 mg in uomini e donne) si discostano in maniera significativa dalle RDA statunitensi (che invece raccomandano un apporto di circa 320 mg per le donne e 420 mg per gli uomini) [3]; allo stesso modo anche i livelli raccomandati dalla European Food Safety Agency (EFSA) sono superiori a quelli di riferimento italiani: all’interno del MEAL Study, circa un terzo del campione non raggiunge l’introito raccomandato dall’EFSA, mentre secondo i LARN soltanto il 9% dello stesso campione risulta avere un apporto inadeguato di magnesio [4].

Il magnesio viene introdotto con l’alimentazione e assorbito a livello del tenue mediante un meccanismo paracellulare (meccanismo di diffusione semplice) o a livello del colon mediante un passaggio transcellulare mediato dai canali TRPM6 e TRPM7 [5]: solo una quantità variabile tra il 24 e il 76% viene assorbito a livello intestinale, il resto invece lo ritroviamo a livello fecale. In genere, circa 100 mg al giorno fluiscono nel torrente ematico (al netto dei 120 mg assorbiti e dei 20 mg secreti nel lume): nel plasma i normali livelli di Mg si attestano tra 0,75 e 0,95 mmol/l (pari, rispettivamente, a 1,8 e 2,3 mg/dl) e nel torrente ematico viaggia per lo più ionizzato (55–70%), mentre è in parte legato a proteine plasmatiche (20–30%) e solo una piccola quantità risulta legato ad anioni. Viene filtrato a livello del glomerulo renale (2400 mg/die) e successivamente riassorbito in minima parte a livello del tubulo prossimale (15–20%) e maggiormente dell’ansa ascendente di Henle (60–70% del magnesio filtrato), in assenza di una vera e propria regolazione endocrina (figura 2) [6].

Fig. 2
figure 2

Omeostasi del magnesio

Ipomagnesemia: cause e legame con altri ioni

La “Western Diet” è considerata povera in magnesio; pertanto, una certa parte della popolazione dei Paesi occidentali risulta a rischio di sviluppare ipomagnesemia (livelli di magnesio sierico inferiori a 0,75 mmol/l). Oltre al ridotto apporto, esistono numerose altre cause di ipomagnesemia, ad esempio un’eccessiva introduzione di calcio con la dieta ma anche patologie di tipo metabolico, come il Diabete Mellito, oltre che numerosi farmaci (Tabella 1). L’ipomagnesemia è poi in stretta relazione con la carenza di vitamina D, che favorisce l’assorbimento del magnesio come quello del calcio; tuttavia, la stessa vitamina D ha bisogno per essere idrossilata (e quindi attivata) di enzimi di idrossilazione (25-idrossilasi, 1-\(\alpha \) idrossilasi) che necessitano di magnesio come cofattore [6, 7].

Tabella 1 Cause di ipomagnesemia

I livelli di magnesio, inoltre, influenzano quelli di altri ioni e viceversa: infatti, l’ipokalemia comporta magnesuria, mentre l’ipomagnesemia determina kaluria; nello specifico, si ritiene che il canale del potassio ROMK a livello delle cellule del nefrone distale tenda a rispondere a logiche di gradiente ionico in caso di mancanza di magnesio, mentre per concentrazioni intracellulari normali inibisca l’efflusso di potassio [8]. L’ipomagnesemia determina un ridotto rilascio di paratormone (PTH) ma anche una sorta di resistenza all’azione dello stesso a livello del tessuto osseo, con risultante grave ipocalcemia (relativamente frequente in corso di terapia cronica con inibitori della pompa protonica). L’effetto sulla secrezione di PTH viene mostrato da uno studio in vitro, nel quale ghiandole paratiroidee di cavie venivano poste in soluzioni a diverse concentrazioni di calcio: le concentrazioni di magnesio risultavano inversamente proporzionali al rilascio di PTH per basse concentrazioni di calcio, mentre per concentrazioni di calcio più elevate il loro effetto sul rilascio di PTH risultava meno evidente [9].

Determinate condizioni cliniche che causano ipomagnesemia risultano strettamente correlate alla nutrizione clinica: ad esempio, la sindrome da refeeding (RFs), condizione di improvviso anabolismo in cui si trovano le cellule dopo un lungo periodo di digiuno, comporta una richiesta di ioni necessari al funzionamento delle molecole di accumulo di energia. I sintomi della RFs severa comprendono anche manifestazioni dovute a ipomagnesemia (come astenia, tremori, convulsioni, aritmie cardiache, tabella 2); pertanto, l’ASPEN raccomanda di monitorare il magnesio sierico ogni 12 ore nei pazienti severi, ma soprattutto di ridurre l’apporto calorico e/o glucosio del 50% nel caso in cui i livelli di elettroliti dovessero scendere nonostante la supplementazione endovenosa [10]. Tra le cause di RFs ci sono, ovviamente, i disturbi del comportamento alimentare (DCA) e, in questo caso, alcuni autori raccomandano una supplementazione profilattica con magnesio, alla dose di 0,3–0,4 mmol/kg/die [11].

Tabella 2 Effetti dell’ipomagnesemia

Sembra che esista una relazione “reciproca” tra magnesio e risposta insulinica: lo ione è necessario al rilascio di insulina da parte della \(\beta \)-cellula pancreatica, poiché regola la funzione della glucochinasi e l’ingresso di calcio in seguito alla depolarizzazione di membrana; l’insulina, a sua volta, sembra essere regolatrice di una piccola parte del riassorbimento renale del magnesio a livello del tubulo contorto distale, dove determina l’esocitosi tramite vescicole plasmatiche del canale ionico TRPM6 [12]. Il ruolo del magnesio nel diabete è così importante che l’ipomagnesemia riduce il controllo glicemico dei pazienti affetti: di fatto, livelli di magnesio al di sotto di 0,75 mmol/l sono associati con un peggior controllo che si riflette sia sulla glicemia pre-prandiale che sui livelli di emoglobina glicosilata [13]. Come dimostrato recentemente, l’ipomagnesemia associata al diabete comporta un ulteriore incremento del rischio cardiovascolare, determinato dal danno che AGEs e ROS comportano ai piccoli e grandi vasi; di fatto, l’insulino-resistenza, incrementata dai ridotti livelli di magnesio, comporterebbe anche incremento della pressione arteriosa e, nel tempo, favorirebbe l’insorgenza di insufficienza cardiaca e fibrillazione atriale [14, 15].

Una categoria di pazienti particolarmente esposti al rischio di sviluppare ipomagnesemia sono quelli oncologici, a causa di differenti meccanismi patogenetici: in primis uno scarso apporto, legato a iporessia tumore-correlata, ma anche aumentate perdite gastrointestinali, dovute a vomito e/o diarrea che possono essere scatenate da farmaci chemioterapici (es. gemcitabina); alcuni di questi farmaci (come gli anticorpi anti-EGF e i derivati del platino) possono, inoltre, determinare un danno tubulare renale, con scarso riassorbimento di magnesio [16].

Estremamente interessante è la relazione bidirezionale che è stata dimostrata tra stato di stress “cronico” e l’ipomagnesemia. L’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene potrebbe causare ipomagnesemia ma, a sua volta, potrebbe essere esacerbato dalla carenza di magnesio: lo ione, infatti, è necessario alla sintesi di serotonina (in quanto cofattore della triptofano-idrossilasi) che ha un ruolo inibitorio sul recettore NMDA, al centro della trasmissione eccitatoria glutammatergica. Il meccanismo attraverso il quale il magnesio verrebbe perso, tuttavia, riguarderebbe lo shift dal compartimento intra- a extracellulare determinato dalle catecolamine e dal cortisolo, con aumentata eliminazione per via renale [3].

Recentemente sono stati messi a punto dei questionari (MDQ-62, MDQ-23, MDQ-10) che permettono, attraverso uno score basato su vari quesiti anamnestici (dalle abitudini alimentari a sintomi come stanchezza, irritabilità, ecc.), di stimare l’insorgenza di ipomagnesemia con una buona sensibilità (0,8–0,9) [17].

Ipomagnesemia e farmaci

L’ipomagnesemia può essere determinata dall’impiego cronico di diversi farmaci (Tabella 1): alla lunga lista di principi attivi il cui effetto è sicuramente noto (come diuretici e inibitori di pompa protonica) se ne aggiungono altri il cui effetto è sicuramente meno scontato: l’insulina, ad esempio, determinerebbe uno shift intracellulare come quello (molto più conosciuto) del potassio [18]; un altro farmaco utilizzato nella lotta al diabete, la metformina, determinerebbe invece (perlomeno in vitro) una riduzione dell’espressione del canale ionico TRPM6 a livello della superficie luminale intestinale e del tubulo renale, con ridotto (ri)assorbimento [19].

Altra categoria di farmaci che sembrano essere legati all’insorgenza di ipomagnesemia sono quelli attualmente utilizzati per la lotta all’osteoporosi: ad esempio la teriparatide, che in una coorte di 53 pazienti determinava ipomagnesemia in maniera progressiva fino a raggiungere circa il 35% del campione, attraverso un (ipotizzato) meccanismo che coinvolge i recettori sensibili al calcio (CaSR), attivati dall’ipercalcemia giornaliera transitoria, a livello dell’ansa di Henle con relativa magnesuria [20]. Meno evidente, invece, è il meccanismo che collega l’ipomagnesemia ai farmaci antiriassorbitivi: sebbene case-report ne riportino l’insorgenza in pazienti con ridotta funzionalità renale [21], casi di ipomagnesemia sono stati registrati anche in pazienti in prevenzione primaria con denosumab e acido zoledronico (bisfofonato) per fratture litiche di origine oncologica, sebbene nessuno di essi veniva giudicato di forma severa (ossia con livelli inferiori a 0,9 mg/dl) [22].

Anche se non è un farmaco, l’alcol è una sostanza esogena che può determinare ipomagnesemia, tanto da renderla la più frequente disionia nei soggetti affetti da abuso cronico di bevande alcoliche. I meccanismi chiamati in causa sono molteplici: dal ridotto introito (per scarsa alimentazione), allo switch intracellulare (secondario all’alcalosi respiratoria) fino alla perdita per via renale (danno tubulare alcol-indotto) [18].

Terapia dell’ipomagnesemia e ruolo degli SGLT2i

La terapia dell’ipomagnesemia dipende in prima battuta dalla severità della stessa: livelli al di sotto di 1 mEq/l (pari a 1,2 mg/dl) sono da considerarsi severi e se accompagnati da aritmie cardiache (nello specifico torsione di punta) è necessaria una correzione tempestiva con 1–2 g di magnesio solfato per via endovenosa, seguita da infusione continua e stretto monitoraggio; in assenza, invece, di alterazioni elettrocardiografiche o per ipomagnesemie lievi-moderate si può optare per una integrazione orale con una delle tante forme di magnesio. Bisogna considerare, tuttavia, che le forme inorganiche di magnesio (come magnesio idrossido, ossido, carbonato) vengono scarsamente assorbite e possono determinare diarrea per meccanismo osmotico; le forme organiche (come magnesio citrato, gluconato, glicerofosfato) sono più tollerate e più facilmente internalizzate a livello enterocitario [23].

I farmaci SGLT2 inibitori (SGLT2i) hanno dimostrato di essere efficaci nel contrastare l’ipomagnesemia refrattaria alla supplementazione (o che necessitava di continue infusioni per via endovenosa), attraverso un meccanismo ipotizzato di riduzione di insulino-resistenza e/o di un enhancement dell’espressione del canale TRPM6 a livello intestinale e renale [24]; questi risultati sono stati confermati anche in una recente metanalisi che sottolinea come l’utilizzo di una qualsiasi delle molecole SGLT2i comporta un incremento medio della magnesemia di 0,07 mmol/l vs placebo, mentre tra le molecole quella risultata avere una maggiore efficacia risulta essere il canaglifozin [25].

Ipermagnesemia: cause e terapia

L’ipermagnesemia è uno stato più raro e molto meno discusso in letteratura; il suo riscontro è spesso legato all’utilizzo (a scopo per lo più lassativo) di ossido di magnesio da parte di pazienti anziani affetti da insufficienza renale cronica [26]; la gravità delle manifestazioni è ovviamente graduale, ma l’ipermagnesemia rimane spesso asintomatica o paucisintomatica almeno fino a circa 7 mg/dl, per livelli superiori invece i sintomi sono via via più gravi, fino a coinvolgere la funzione del muscolo cardiaco (aritmie) o dei muscoli ventilatori (paralisi flaccida) [27].

Se guardiamo alla prevalenza dell’ipermagnesemia, in uno studio che coinvolgeva poco più di 12000 pazienti afferenti a un reparto di Medicina Interna, gli affetti (pari a 1,78% del campione) risultano relativamente pochi rispetto invece alla diffusione dell’ipomagnesemia, e la loro suddivisione per età è meno netta [28].

L’ipermagnesemia (livelli sierici di magnesio superiori a 0,95 mmol/l) è considerata una condizione meno grave rispetto all’ipomagnesemia, sia perché paucisintomatica fino a livelli sierici elevati, sia perché questa condizione ha dimostrato di ridurre la mortalità per cause cardiovascolari nei pazienti affetti da insufficienza renale cronica allo stadio terminale e sottoposti a emodialisi, anche se gli studi presi in causa dalla metanalisi risultano quantomeno eterogenei [29]. Il meccanismo attraverso cui si esplica questo effetto sembra essere riconducibile al rischio cardiovascolare determinato in questi pazienti dalla formazione di composti calcio-fosforo (entrambi sovrasaturi), che si legano alla proteina fetuina-A plasmatica a formare complessi solubili (CPP1) i quali tuttavia, in presenza di iperfosforemia, cristallizzano in composti CPP2, capaci di causare calcificazione delle cellule della tonaca dei vasi sanguigni. La presenza di elevate concentrazioni di magnesio nel siero preverrebbe la formazione dei complessi CPP2, con salvaguardia delle pareti vasali e relativa protezione cardiovascolare [30].

La terapia dell’ipermagnesemia dipende dalla gravità della stessa, a sua volta condizionata dalla funzionalità renale del paziente: se lo stesso ha una GFR maggiore di 60 ml/min ed è paucisintomatico è sufficiente rimuovere l’apporto esogeno di magnesio, se invece i livelli dovessero risultare maggiori di 7 mg/dl sarebbe opportuno fornire cardioprotezione con infusione endovenosa di calcio gluconato o cloruro (1 g in 2–5 min) oltre che idratazione con soluzione salina e.v.; tuttavia, in caso di gravi sintomi (es. ipotensione, ipoventilazione, paralisi flaccida) è necessario forzare la diuresi mediante l’utilizzo di diuretici dell’ansa (es. furosemide e.v. 1 mg/kg) oppure, in extrema ratio, ricorrere all’emodialisi, facendo attenzione a non causare ipocalcemia che può determinare un peggioramento della sintomatologia [27].