Introduzione

Risale a 100 anni fa il primo utilizzo della terapia insulinica, in un bambino affetto da diabete di tipo 1 (DM1), Leonard Thompson, che mostrò immediati benefici clinici a seguito della somministrazione del farmaco. Sono passati, inoltre, 50 anni dalla scoperta degli autoanticorpi rivolti verso la beta-cellula, questa volta in una donna anziana affetta da poli-endocrinopatia autoimmune. La scoperta fu ad opera di Gianfranco Bottazzo nel laboratorio di Deborah Doniach e segnò una svolta fondamentale nello studio della patogenesi del DM1.

Nonostante siano passati molti anni dal primo utilizzo dell’insulina e dalla scoperta dell’autoimmunità nel DM1, e nonostante lo sviluppo di insuline di sintesi sempre più simili all’insulina endogena e di una tecnologia sempre più all’avanguardia, a tutt’oggi non abbiamo raggiunto un controllo glicemico adeguato in molte persone affette da T1D. Queste considerazioni emergono dalle recenti evidenze pubblicate nello studio “T1D Exchange” condotto negli USA su più di 20.000 soggetti affetti da DM1 seguiti per circa sei anni, che mostrano come solo il 17% dei soggetti adolescenti raggiunga il target di HbA1c <7,5% e solo il 21% dei soggetti adulti il target di HbA1c <7% suggerito dalle linee guida della American Diabetes Association (ADA) [1].

Analogamente, i dati dell’Internation Diabetes Federation (IDF), mettono in evidenza come soprattutto nella fascia di età che va dall’infanzia all’adolescenza, i livelli di HbA1c siano elevati, tendendo a diminuire nel tempo, per poi stabilizzarsi su valori di circa 7,5%, non ottimali secondo le linee guida attuali [2].

Anche in Italia, dove la situazione è senz’altro migliore, gli annali AMD del 2021 hanno registrato valori medi di HbA1c di 7,8% nei soggetti con DM1, valori inferiori a quelli pubblicati da Foster [1], ma comunque non a target secondo gli standard nazionali e internazionali. Inoltre, in tale casistica, solo il 30% dei pazienti mostra un target di HbA1c <7,0%, a fronte del 35,6% dei pazienti con un valore di HbA1c >8,0% [3].

Note di epidemiologia

L’eterogeneità del DM1 emerge già dalla sua epidemiologia. È ben noto, infatti, come i tassi di incidenza varino significativamente in base alla fascia d’età e all’area geografica esaminata. Nello specifico, nella popolazione con fascia di età 0–14 anni, l’incidenza maggiore viene registrata in Nord America e nell’Europa settentrionale (Norvegia, Svezia, Finlandia). Inferiori sono i tassi di incidenza negli altri Paesi europei (Europa occidentale e meridionale), che si attestano su valori da 10 a 20 per 100.000 abitanti per anno nella fascia di età da 0 a 14 anni. Per quanto concerne l’Italia, fa eccezione la Sardegna, che mostra una incidenza simile a quella dei Paesi del Nord Europa (30 nuovi casi per 100.000 abitanti).

Per quanto riguarda la fascia di età >20 anni, l’incidenza del DM1, in generale, risulta maggiore negli uomini rispetto alle donne. A livello globale, esiste, inoltre, una variabilità di oltre 30 volte nell’incidenza annuale, con tassi che variano da meno di uno su 100.000 individui in Cina a più di 30 per 100.000 individui in alcuni stati del Nord Europa (Svezia, Finlandia,) e dell’Africa orientale. Tali variazioni rispecchiano la variazione geografica che si osserva per l’incidenza del DM1 a insorgenza giovanile [2].

L’elevata eterogeneità del diabete tipo 1

Nel 2022 l’ADA ha riconosciuto all’interno della classificazione del DM1 anche il Latent Autoimmune Diabetes in Adults (LADA), una forma di diabete autoimmune a insorgenza in età adulta caratterizzata da una più lenta progressione del danno beta-cellulare, il cui riconoscimento ha notevole rilevanza clinica, al fine di impostare la più idonea strategia terapeutica [4, 5]. Infatti, secondo l’ADA, se per la “definizione” di DM1 è determinante la presenza di autoanticorpi diretti verso la decarbossilasi dell’acido glutammico (GADA o GAD65), l’insulina (IAA), la tirosina fosfatasi (IA2) o il trasportatore 8 dello zinco (ZnT8), fattore altrettanto importante è la velocità di progressione della malattia in termini di distruzione delle beta-cellule pancreatiche, che si dimostra estremamente variabile, più rapida in alcuni individui, soprattutto bambini e adolescenti, e più lenta in altri, soprattutto adulti.

A tal proposito, il DM1 dell’adulto, riconosce una profonda eterogeneità sia dal punto di vista clinico che fenotipico. L’esordio, infatti, può essere acuto, presentando le caratteristiche tipiche del DM1 a insorgenza in età pediatrica, con chetoacidosi e scompenso metabolico, o più sfumato, come nel caso del LADA, presentando segni e sintomi meno evidenti, a dimostrazione di una perdita di funzione beta-cellulare più lenta nel tempo [4].

La forma conclamata e sintomatica di diabete autoimmune si sviluppa in un periodo che può variare da mesi ad anni. I modelli di progressione proposti dalla Juvenile Diabetes Research Foundation (JDRF), dalla Endocrine Society e dall’ADA, applicabili anche in caso di LADA, prevedono il susseguirsi di tre stadi evolutivi. Lo stadio 1 è caratterizzato dall’instaurarsi di quei processi fisiopatologici (trigger) che determinano l’insorgenza dell’autoimmunità, ma da una condizione clinica di normo-glicemia. Nello stadio 2, la progressione dei fenomeni fisiopatologici porta a un iniziale deterioramento della funzione beta-cellulare, ridotta secrezione insulinica e conseguente comparsa di alterati valori di glicemia. Infine, nello stadio 3, l’insufficienza beta-pancreatica segna il passaggio al diabete conclamato con la necessità di iniziare terapia insulinica sostitutiva. Se il modello di progressione è lo stesso e applicabile a tutte le forme di diabete autoimmune, la durata di ciascuna di queste fasi può variare significativamente. Nel caso del LADA, infatti, in virtù della più lenta velocità di deterioramento della funzionalità beta-cellulare, la progressione alle fasi 2 e 3 può presentare tempistiche significativamente più lunghe, con possibili future implicazioni terapeutiche (Fig. 1). Tale forma di diabete autoimmune è stata studiata estesamente nel progetto Non Insuln Requiring Autoimmune Diabetes (NIRAD) finanziato dalla Società Italiana di Diabetologia, progetto che ha visto la partecipazione di 83 centri per la cura del diabete distribuiti su tutto il territorio nazionale consentendo un avanzamento delle conoscenze in queta forma di diabete.

Fig. 1
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Fasi cliniche del diabete autoimmune. In soggetti con predisposizione genetica, fattori ambientali trigger possono indurre una risposta autoimmunitaria contro le cellule beta del pancreas. L’attivazione della risposta immunitaria determina una progressiva perdita della riserva funzionale beta-cellulare (stadio 1), con progressione verso la disglicemia (stadio 2) e successivamente verso uno stadio di insulino-dipendenza (stadio 3). Diverse velocità di progressione attraverso i tre stadi caratterizzano forme diverse di diabete autoimmune, come il DM1 classico (linea rossa) e il LADA (linea arancione e linea blu). Modificato da [6]

Confrontando i diversi tipi di diabete, il DM1 a esordio classico, il LADA e il diabete di tipo 2 (DM2) possiamo osservare come alcune caratteristiche genetiche, fenotipiche e cliniche, costituiscano un diverso spettro di variabili, variamente combinate tra loro in un continuum patogenetico. Ovviamente per quanto riguarda il DM1, oltre alla suscettibilità conferita dai genotipi di antigeni leucocitari umani (HLA) e, in particolare, dagli aplotipi DR3-DQB1/0201 e DR4-DQB1/0302, altri fattori determinanti sono la presenza di autoimmunità (la presenza di uno o più autoanticorpi e il relativo livello sierico) e il progressivo declino della funzione beta-cellulare con conseguente scompenso metabolico (talora causa di chetoacidosi) e necessità di terapia insulinica. A tal riguardo, è interessante notare come sia stata osservata una correlazione tra numero di autoanticorpi positivi, livello autoanticorpale e severità del quadro clinico all’esordio, con un fenotipo più vicino al DM1 classico [4, 6]. Di contro, il DM2 è tipicamente caratterizzato da un’età d’esordio avanzata e dalla presenza di un profilo “dismetabolico”, con frequente compresenza di altre condizioni patologiche quali obesità, ipertensione arteriosa e dislipidemia, in un quadro variabile iniziale di insulino-resistenza. Nel LADA, queste stesse variabili possano coesistere e combinarsi tra loro.

Il nuovo concetto di “endotipo”

Il DM1 presenta un’ampia eterogeneità che si manifesta non solo attraverso il riconoscimento di fenotipi clinici distinti, ma anche attraverso la diversa risposta a un dato trattamento in individui clinicamente simili. Questa osservazione ha portato recentemente all’introduzione del concetto di “endotipo”. L’endotipo è un sottotipo di DM1 definito da specifici meccanismi funzionali e fisiopatologici, diversi da soggetto a soggetto, che possono esitare in simili cluster di sintomi e quindi a manifestazioni comuni, in sintesi in uno stesso fenotipo (diversi endotipi, stesso fenotipo). Questo nuovo concetto implica che percorsi fisiopatologici diversi possono esitare nella stessa malattia, ma anche che trial di immuno-intervento che mirano a intercettare uno di quei percorsi possono avere un successo limitato proprio perché applicati in modo indistinto a tutta la popolazione con DM1, senza considerare il sottogruppo specifico in cui è attivo il meccanismo che si vuole intercettare. A tal riguardo, nel 2020 Battaglia e collaboratori hanno proposto un modello a “palette” per definire i diversi endotipi nel DT1. Il modello proposto si basa su specifiche caratteristiche quali il numero e il tipo degli autoanticorpi, l’attivazione dei linfociti CD4 e CD8 o l’attivazione della immunità innata, definendo così cluster diversi di pazienti con simili caratteristiche fenotipiche [7]. In termini di medicina di precisione, questo approccio potrebbe aiutare nell’individuare terapie personalizzate, in grado di massimizzare l’efficacia dei trattamenti in pazienti con le medesime caratteristiche fisiopatologiche.

La diagnosi e la gestione del DM1 sono rimaste per lo più invariate nel corso degli anni. La gestione della malattia si è basata principalmente sul fenotipo e raramente sull’endotipo.

Il trattamento della malattia è comune a tutti i pazienti, ovvero basato sulla terapia insulinica con schemi più o meno personalizzati in base alla tipologia di insulina impiegata e alla disponibilità di strumenti (dalle siringhe alle penne pre-riempite fino a smart pens o a micro-infusori). Tuttavia, non tutti i pazienti sono uguali. Alcuni, infatti, presentano una distruzione delle beta-cellule rapida e completa, mentre altri mantengono un determinato pool, seppur ridotto, di beta-cellule funzionanti in grado di provvedere a una residua produzione di insulina per un lasso di tempo più o meno lungo. Tali pazienti dimostrano di sviluppare meno complicanze croniche nel corso del tempo e possono essere individuati attraverso il dosaggio del C-peptide, stima indiretta della funzionalità beta-pancreatica residua.

Da questo punto di vista, lo studio degli endotipi del DM1 potrebbe aiutare nella comprensione dei processi immunitari che conducono alla distruzione quantitativa delle beta-cellule e alla definizione di approcci terapeutici personalizzati, con risultati migliori rispetto a quelli ottenuti fino ad ora.

A tal proposito, sono stati recentemente individuati due endotipi di DM1, distinti per età di insorgenza, tipologia di infiltrato cellulare e produzione di proinsulina e insulina all’interno delle beta-cellule pancreatiche (Tabella 1). Secondo Leete e colleghi, l’endotipo 1 (T1D1E), caratteristico dei pazienti con esordio precoce (<7 anni), è contraddistinto da un processamento aberrante della proinsulina, da una più marcata riduzione dei livelli di C-peptide e da un incremento del rapporto proinsulina/C-peptide rispetto ai soggetti con un esordio dopo i 13 anni, che caratterizza l’endotipo 2 (T1D2E) [8]. Un ulteriore studio del 2022 ha contribuito alla distinzione dei due endotipi, rilevando come i soggetti appartenenti al T1D1E presentino una maggior prevalenza di familiari di primo grado affetti da diabete, un HLA di suscettibilità, un livello autoanticorpale maggiore alla diagnosi e la presenza di anticorpi anti-insulina. Viceversa, i soggetti T1D2E sono più frequentemente di sesso maschile, presentano una maggior prevalenza di positività ai GADA, una sintomatologia d’esordio più acuta e uno scompenso glicemico maggiore che si riflette in un più alto tasso di chetoacidosi diabetica [9].

Tabella 1 Caratteristiche cliniche, immunologiche e genetiche degli endotipi del diabete [8, 9]. DKA, chetoacidosi diabetica; M, maschile; F, femminile; Ab, anticorpi; GAD, decarbossilasi dell’acido glutammico; Treg, cellule T regolatorie; Breg, cellule B regolatorie; HLA, antigene leucocitario umano; APCs, cellule presentanti l’antigene

Poiché i pazienti con endotipo T1DE1 sembrano più vulnerabili alle complicanze a lungo termine, una loro tempestiva identificazione potrebbe garantire un trattamento insulinico intensivo più precoce, riducendo il rischio di danni a lungo termine. Nonostante gli intensi sforzi profusi negli ultimi decenni nello sviluppo di terapie in grado di modificare il decorso della malattia, finora nessun trial clinico è riuscito a indurre la remissione del T1D dopo l’esordio clinico o a prevenire la progressione clinica nei pazienti a rischio. Nuovi studi, aventi come target soggetti con endotipo T1DE2, con valori più alti di C-peptide, potrebbero rappresentare una nuova opportunità di intervento volta a modulare i processi autoimmuni al fine di preservare la funzionalità beta-cellulare in questa sottopopolazione di soggetti.

Un esempio: la specificità di azione del teplizumab

In ottica di medicina di precisione nel DM1 e di interventi mirati a specifici endotipi, paradigmatici sono gli studi di immuno-intervento con teplizumab.

Teplizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato della classe IgG1 che riconosce il complesso molecolare Cluster of Differentiation 3 (CD3), un co-recettore delle cellule T indispensabile per l’attività del recettore stesso. Gli anticorpi monoclonali anti-CD3 si legano al CD3 inducendo, nel caso di processi autoimmuni, la tolleranza delle cellule T regolatrici.

Nel campo del DM1, Teplizumab è stato studiato in trial di fase 1–2 tra il 1990 e il 2005, dimostrando una remissione del diabete autoimmune in topi Non-Obese Diabetic (NOD). Sulla scia delle evidenze ottenute, tra il 2002 e il 2011 sono stati quindi condotti studi di fase 2–3 allo scopo di proteggere le beta-cellule e la secrezione endogena di insulina al momento dell’esordio clinico della malattia [10]. Significativi, a tale proposito, sono stati i risultati ottenuti da Herold e collaboratori in uno studio condotto su 28 soggetti con recente diagnosi di DM1. In questo studio di fase 2–3, infatti, gli autori hanno dimostrato un miglioramento sia della produzione di insulina sia del compenso metabolico nei pazienti trattati per 14 giorni con teplizumab rispetto al gruppo di controllo. In particolare, l’anticorpo monoclonale ha mantenuto o aumentato la produzione di insulina nel 75% dei pazienti nel gruppo di trattamento, mentre si è osservato un calo della risposta del C-peptide in 10 dei 12 pazienti trattati con placebo. Inoltre, anche i valori di HbA1c e il fabbisogno insulinico si sono ridotti nel braccio di intervento e la risposta clinica è stata associata a una diminuzione del rapporto tra cellule T CD4+/CD8+ tre mesi dopo il trattamento [11]. Alcuni anni dopo, un secondo trial condotto dallo stesso gruppo su una popolazione affine, ma caratterizzato da una maggiore durata di follow-up, ha dimostrato un aumento della risposta del C-peptide al test di tolleranza al pasto misto (MMTT) e un miglioramento dei parametri metabolici e immunologici, confermando quanto osservato precedentemente [12]. Studi successivi di fase 3, seppur mitigando l’entusiasmo delle prime evidenze, hanno comunque mostrato una riduzione della velocità di progressione della malattia [10]. Tuttavia, nonostante questi studi nel loro complesso, abbiano dimostrato un certo grado di efficacia nella protezione della funzione beta-cellulare in termini di secrezione del C-peptide, nessuno di questi è riuscito a indurre la remissione del DM1 dopo l’insorgenza clinica [10]. L’eterogeneità della popolazione inclusa potrebbe, avere, almeno in parte, influenzato i risultati ottenuti [13].

La recente definizione del concetto di endotipo nel DM1 può comunque aprire la strada a una parziale rilettura dei dati dei trial condotti su Teplizumab. Infatti, la maggiore efficacia dell’azione dell’anticorpo anti CD3 in termini di mantenimento del C-peptide a un anno si metteva in evidenza nella fascia di età compresa tra 8–11 anni rispetto al resto della popolazione di T1D valutata [13]. Nel 2019 sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine i dati dello studio TN-10, in cui è stata valutata l’efficacia di teplizumab in soggetti normoglicemici ad alto rischio (fase 1 della malattia) di rallentare o prevenire la progressione del DM1. Lo studio, caratterizzato da un follow-up di almeno 5 anni, ha dimostrato per la prima volta l’efficacia dell’anticorpo monoclonale anti-CD3 in soggetti ad alto rischio di sviluppare DM1, con un ritardo medio nello sviluppo della malattia nel gruppo di trattamento di circa 2 anni. Inoltre, interessante è sottolineare come la maggior efficacia del farmaco si sia ottenuta in soggetti con un endotipo simile di malattia (anti-Znt8+, HLA-DR4 e basso C-peptide) [14].

Questi risultati hanno portato la Food and Drug Administration (FDA) ad approvare l’utilizzo di teplizumab per il rallentamento della progressione di malattia dallo stadio 2 allo stadio 3 in soggetti a rischio di DM1 di età ≥8 anni [15]. In conclusione, il trattamento con Anti-CD3 rappresenta ad oggi un primo esempio di terapia di precisione nel DM1. L’identificazione dell’endotipo ideale in cui specifici trattamenti possano essere maggiormente efficaci rappresenta il punto di partenza per protocolli terapeutici personalizzati.

Strumenti diagnostici

Per quanto riguarda la diagnosi di DM1, i due elementi che nella pratica clinica possono guidare le scelte terapeutiche sono sicuramente gli autoanticorpi e il C-peptide.

Non solo gli anticorpi diagnostici di autoimmunità nel diabete sono molteplici (GAD, IAA, IA2 e ZnT8) ma possono legare anche diversi epitopi. Tali differenze nell’espressione del profilo autoanticorpale non rappresentano solo un esercizio scolastico di classificazione ma sembrano influenzare anche il fenotipo. Lo studio dei pattern legati agli anticorpi rivolti verso l’epitopo 256-760 della IA-2, ha dimostrato come l’immunità nei soggetti nei quali viene riscontrato questo anticorpo è rivolta verso diversi epitopi della IA-2. In particolare, è stato recentemente osservato che i pazienti LADA con positività degli anticorpi diretti verso il frammento intracellulare della IA-2 mostrano caratteristiche fenotipiche più simili al DM1 ad esordio giovanile, rispetto ai soggetti LADA con un’autoimmunità diretta solamente verso la porzione extracellulare della IA-2, caratterizzati da tratti più marcati di insulino-resistenza e più simili fenotipicamente ai soggetti con DM2 [16].

Ben noto, invece, è il ruolo del C-peptide quale marcatore di funzione beta-cellulare, essendo secreto in quantità equimolare all’insulina e dosabile nel plasma [17]. Il test di stimolo con glucagone e il pasto misto sono i test più sensibili e specifici per valutare la riserva beta-cellulare, ma spesso laboriosi e di difficile impiego al di fuori dei trial clinici. Più utile, pertanto, nella pratica clinica è il dosaggio del C-peptide a digiuno o random (rCP). Ad ogni modo, è bene ricordare che il dosaggio del C-peptide deve essere sempre interpretato con cautela, dal momento che il suo valore può essere influenzato da diversi fattori, primi tra tutti la concentrazione ematica di glucosio che, se superiore a 140 mg/dl, rende il dosaggio del C-peptide poco affidabile. Altri fattori da tenere in considerazione sono l’effetto incretinico, il grado di insulino-resistenza e la funzionalità renale. Sebbene ad oggi manchi una standardizzazione nel dosaggio del C-peptide e nella sua interpretazione, tale marcatore può comunque svolgere un ruolo importante nell’indirizzare la più idonea strategia terapeutica. A tal proposito, la rilevanza clinica della misurazione del C-peptide nel management clinico del LADA è stata recentemente evidenziata nella prima dichiarazione di consenso di un gruppo di esperti internazionali sulla gestione specifica del LADA [18]. In breve, il gruppo ha concluso a favore di un approccio terapeutico personalizzato nel LADA, individuando tre diverse categorie proprio sulla base dei livelli di rCP. Mentre un trattamento insulinico intensivo è raccomandato nei pazienti con rCP <0,30 nmol/l, un approccio terapeutico più flessibile è ammesso nei pazienti con rCP compreso tra 0,30 e 0,70 nmol/l, che potrebbero trarre giovamento da una terapia insulinica combinata ad altri agenti ipoglicemizzanti per cui è stato dimostrato un effetto cardiovascolare protettivo e che possono beneficiare di una valutazione periodica della funzione \(\beta \)-cellulare attraverso il monitoraggio periodico (almeno semestrale) dei livelli di C-peptide. Infine, il gruppo di esperti suggerisce di trattare i pazienti con LADA e rCP >0,70 nmol/l secondo l’algoritmo ADA/ EASD, ripetendo la misurazione del C-peptide in caso di deterioramento del compenso glicemico [18].

L’utilità del C-peptide non riguarda solo la stima della riserva beta-cellulare del pancreas ma, secondo diverse evidenze in letteratura, permette anche di fornire utili informazioni riguardo lo stato di malattia e il rischio di sviluppare complicanze croniche. In particolare, nel Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) è stato dimostrato come valori di C-peptide <0,2 nmol/l correlino con un rischio maggiore di complicanze microvascolari, quali la retinopatia e la nefropatia [19].

Conclusioni

Negli ultimi decenni sono stati compiuti importanti passi avanti nella comprensione dell’immunopatologia del TD1, sottolineando la grande eterogeneità in termini patogenetici, immunologici, metabolici e clinici. Le prospettive future nel trattamento del diabete autoimmune risiedono, pertanto, nell’identificazione dell’endotipo specifico in cui tali trattamenti possano essere maggiormente efficaci, nell’ottica di una medicina di precisione che possa modificare il decorso di una malattia per cui, ad oggi, non esiste ancora terapia risolutiva.