Introduzione

La tireotossicosi indotta da amiodarone (AIT) è una patologia di non raro riscontro nella pratica quotidiana endocrinologica, caratterizzata da elevati tassi di morbidità e mortalità [1]. L’AIT è sempre stata considerata una sfida sia dal punto di vista diagnostico sia dal punto di vista terapeutico. Questo da una parte perché la diagnosi differenziale tra le diverse entità nosologiche raggruppate sotto il nome di AIT non è affatto scontata, richiedendo spesso molteplici strumenti diagnostici, con risultati non sempre univoci. D’altra parte, la terapia farmacologica deve di necessità tenere conto della caratterizzazione nosologica dell’AIT per identificare il trattamento più opportuno, sebbene anche a fronte dell’applicazione della terapia corretta, la risposta al trattamento potrebbe non essere rapida, con importanti implicazioni prognostiche [2].

Nel corso degli ultimi anni sono andati raffinandosi gli strumenti che utilizziamo per una caratterizzazione diagnostica di questa patologia. Contemporaneamente, si sta affermando sempre di più il concetto che l’approccio terapeutico debba mettere al centro il paziente con il suo rischio di complicanze cardiovascolari, piuttosto che limitarsi alla sola tiroide.

Farmacologia dell’amiodarone

L’amiodarone è un farmaco benzofuranico estesamente utilizzato nella pratica cardiologica come antiaritmico. Possiede un meccanismo d’azione complesso: agisce principalmente come antiaritmico di classe III inibendo la Na-K ATPasi miocardica; in più, possiede anche moderata azione di antiaritmico di classe I mediante blocco del canale del sodio, classe II mediante un meccanismo di blocco adrenergico non competitivo, e classe IV per l’effetto sui potenziali d’azione mediati dalle correnti del Ca2+ [3].

La struttura molecolare dell’amiodarone è simile a quella degli ormoni tiroidei (Fig. 1). In ogni molecola di amiodarone sono contenuti due atomi di iodio, che costituiscono circa il 37% del suo peso molecolare. Poiché ogni giorno viene deiodinato circa il 10% della molecola, la terapia con amiodarone al classico dosaggio di mantenimento di 200 mg giornalieri porta al rilascio quotidiano di 7 mg di iodio, una quantità che è circa 50 volte la dose giornaliera raccomandata [4]. L’amiodarone e il suo principale catabolita desetilamiodarone sono molecole altamente lipofile con un’emivita molto lunga, rispettivamente di 52,6 ± 23,7 e 61,2 ± 31,2 giorni [5]. Un lunga emivita implica che alla sospensione del farmaco si abbia un prolungamento sia degli effetti terapeutici sia degli eventuali effetti collaterali [3].

Fig. 1
figure 1

Struttura molecolare degli ormoni tiroidei, dell’amiodarone e del suo principale catabolita desetilamiodarone

Fisiopatologia degli effetti dell’amiodarone sulla tiroide

L’amiodarone ha molti effetti sul metabolismo della tiroide, che includono il blocco dell’attività delle deiodinasi di tipo I e II, con effetti sul rapporto tra FT4 e FT3 sieriche e sul feedback ormonale a livello ipofisario. L’elevato carico iodico in acuto provoca un blocco della sintesi di ormoni tiroidei mediante effetto Wolff-Chaikoff, al quale la tiroide il più spesso riesce a rispondere mettendo in atto un meccanismo di escape. Al contrario, l’elevato carico iodico che agisce su una sottostante autonomia funzionale può portare a un ipertiroidismo iodio-indotto (effetto Jod-Basedow [2]). Meno chiaro è, invece, se venga ridotto il trasporto intracellulare della T4 mediante downregulation dei trasportatori degli ormoni tiroidei MCT8, MCT10 e OATP1C1, come si credeva in passato ed è stato recentemente rimesso in discussione [6]. L’affinità strutturale di amiodarone e desetilamiodarone con gli ormoni tiroidei consente loro di agire come blandi antagonisti sul recettore per questi ormoni, contribuendo a creare un ipotiroidismo tissutale, che potrebbe anche spiegare parte degli effetti farmacologici dell’amiodarone a livello cardiaco [7]. Infine, l’amiodarone esercita un effetto citotossico e proapoptotico sulle cellule follicolari tiroidee, sia direttamente tramite lo stress del reticolo endoplasmatico, sia indirettamente in conseguenza del carico iodico.

L’amiodarone è, pertanto, in grado di provocare variazioni parafisiologiche sulle concentrazioni degli ormoni tiroidei e del TSH: in una fase iniziale si può assistere a una riduzione delle concentrazioni di FT3 e a un aumento di FT4 e TSH; quest’ultimo, in genere, si normalizza dopo qualche mese dall’inizio della terapia [8], mentre la variazione nel rapporto tra FT4 e FT3 può persistere nel corso del tempo. Queste alterazioni del profilo ormonale non devono essere considerate manifestazioni patologiche [9].

Una parte dei pazienti trattati con amiodarone sviluppa, invece, una franca tireopatia, o nella forma di un ipotiroidismo indotto da amiodarone o nella forma di una tireotossicosi indotta da amiodarone (AIT). Non è ancora chiaro quale sia la reale incidenza di queste forme patologiche, dal momento che sono stati riportati tassi molto diversi a seconda delle aree geografiche e dello stato di supplementazione iodica, con le serie più recenti che riportano prevalenze intorno al 15–20% [1, 10].

La tireotossicosi indotta da amiodarone: diverse entità nosologiche

Sono globalmente riconosciuti due tipi di AIT: tipo 1 (AIT1), una forma di ipertiroidismo iodio-indotto, e tipo 2 (AIT2), una forma di tiroidite distruttiva con conseguente tireotossicosi sostenuta dalla fuoriuscita di ormoni tiroidei preformati [1, 2]. L’AIT1 il più spesso si sviluppa in una ghiandola tiroidea con una preesistente autonomia funzionale a causa del carico iodico che induce rapidamente (mediana 3,5 mesi [11]) un’iperproduzione ormonale tramite effetto Jod-Basedow; in una minoranza di pazienti, invece, l’AIT1 si realizza per “disinibizione” di un morbo di Basedow latente. L’AIT2 può svilupparsi sia in assenza sia in presenza di patologia tiroidea pre-esistente [12], il più spesso dopo un’esposizione più prolungata all’amiodarone (mediana 30 mesi [11]). È stata ipotizzata l’esistenza di una sovrapposizione tra AIT1 e AIT2, a identificare le cosiddette forme di “AIT di tipo misto” nelle quali coesisterebbe una componente di iperproduzione di ormoni tiroidei iodio-indotta e una componente di liberazione di ormoni tiroidei in conseguenza di un danno distruttivo; poiché non esiste una letteratura al riguardo, la reale entità di questa sovrapposizione e, di conseguenza, la reale prevalenza di queste forme è motivo di discussione tra gli autori [9], con alcuni che sostengono una forte sovrapposizione tra le due (e, di conseguenza, un’alta prevalenza delle forme “miste”) e altri che sostengono una scarsa sovrapposizione tra le due (e, di conseguenza, una bassa prevalenza delle forme “miste”), con importanti implicazioni nell’approccio terapeutico (Fig. 2).

Fig. 2
figure 2

Tireotossicosi da amiodarone di tipo misto, ipotesi di prevalenza. \(\mathbf{a}\) Forte sovrapposizione tra AIT1 e AIT2, larga rappresentazione delle AITmix; \(\mathbf{b}\) scarsa sovrapposizione tra AIT1 e AIT2, scarsa rappresentazione delle AITmix; \(\mathbf{c}\) nulla sovrapposizione tra AIT1 e AIT2, assente rappresentazione delle AITmix. AIT1, tireotossicosi da amiodarone di tipo 1; AIT2, tireotossicosi da amiodarone di tipo 2; AITmix, tireotossicosi da amiodarone di tipo misto

Approccio diagnostico alle tireotossicosi da amiodarone

Si può porre diagnosi di AIT in caso di evidenze cliniche e biochimiche di tireotossicosi nel contesto di un’attuale o recente somministrazione di amiodarone.

Le manifestazioni cliniche sono analoghe a quelle riscontrate nell’ipertiroidismo/tireotossicosi di altra natura, con alcuni caveat a cui prestare attenzione: manifestazione clinica di esordio potrebbe essere il peggioramento della patologia cardiologica; non raro nell’anziano è l’esordio con sintomi sfumati a configurare il quadro di “ipertiroidismo apatetico” [13]; per quanto i dicumarolici siano sempre meno utilizzati nella pratica cardiologica, la tireotossicosi potrebbe determinare un aumento della sensibilità a questi farmaci per aumento del tasso di degradazione dei fattori coagulativi vitamina K-dipendenti [14].

Il profilo ormonale di più frequente riscontro vede un aumento delle concentrazioni delle frazioni libere degli ormoni tiroidei a fronte di concentrazioni di TSH indosabili [9]; tuttavia, nel caso coesista una sindrome da bassa T3 (c.d. non-thyroidal illness), le concentrazioni di FT3 potrebbero anche essere normali [15].

Spesso la AIT si sviluppa nel corso di terapia con amiodarone; tuttavia, in considerazione della lunga emivita di questa molecola [5], possono esservi casi di sviluppo di franca patologia anche nei mesi successivi alla cessazione della terapia.

Il passaggio principale nell’approccio diagnostico e terapeutico del paziente con AIT consiste nella valutazione delle condizioni cardiache. Se le condizioni lo consentono, e questo si verifica nella maggior parte dei pazienti, è appropriato procedere alla differenziazione tra tipo 1 e tipo 2.

A tal fine sono generalmente necessari diversi strumenti e procedure diagnostiche (Tabella 1) che orientino nella diagnosi differenziale tra l’ipertiroidismo iodio-indotto dell’AIT1 e la tiroidite distruttiva dell’AIT2 [9]. Storicamente, la AIT1 è stata considerata come una patologia che esordisce su una sottostante e preesistente tireopatia (nodulare o autoimmune), e la AIT2 come una patologia che esordisce in assenza di una tireopatia di base [16]; col tempo è emersa l’evidenza che la presenza di tireopatia non esclude la possibilità di AIT2 [12, 17].

Tabella 1 Strumenti per l’approccio diagnostico alla tireotossicosi da amiodarone di tipo 1 (AIT1) e di tipo 2(AIT2)

In virtù del diverso meccanismo fisiopatologico, il tempo di esordio della tireotossicosi dall’iniziale somministrazione di amiodarone è minore nella AIT1 e maggiore nella AIT2, con una mediana rispettivamente di 3,5 e 30 mesi [11]; questo dato anamnestico è uno strumento utile nell’orientamento diagnostico tra le due forme di AIT, sebbene non completamente conclusivo in considerazione di una certa sovrapposizione tra i tempi di esordio nelle due forme.

Nonostante le concentrazioni di ormoni tiroidei siano generalmente più elevate nella AIT2 rispetto alla AIT1, questo dato non possiede capacità discriminante; parimenti, un aumento del rapporto T4/T3 (>4), che in passato era considerato come orientativo per AIT2, non è un dato utile nel singolo paziente [9].

In passato la presenza di una preesistente tireopatia, anche di natura autoimmunitaria, era considerata elemento orientativo per una diagnosi di AIT1; è stato successivamente visto che la presenza di anticorpi antitireoglobulina e/o antitireoperossidasi non esclude una diagnosi di AIT2 e non ha alcuna implicazione sulla risposta di quest’ultima alla terapia farmacologica dedicata [12]: al giorno d’oggi, dunque, la presenza di anticorpi antitireoglobulina e antitireoperossidasi non è considerata elemento discriminante per la diagnosi di tipo di AIT [9]. È stato inoltre recentemente messo in discussione il ruolo degli anticorpi anti-recettori del TSH (TRAb), la cui presenza era considerata indicativa di AIT1 ancora nelle ultime linee guida [9]: i TRAb sono presenti a titolo significativo solo in una minoranza di casi, che possono essere identificati come AIT1 o AIT2 sulla base di parametri strumentali, anatomopatologici, di risposta alla terapia farmacologica e sulla base di un saggio funzionale che distingua tra immunoglobuline ad attività stimolante il recettore del TSH e immunoglobuline ad attività neutra o inibente [18]. Per quanto non siano al momento stati condotti specifici studi al riguardo, è ipotizzabile che l’utilizzo di kit di dosaggio che valutino l’attività dei TRAb (c.d. TSI assays) anzi che l’affinità di legame al recettore del TSH (c.d. TBII assays) possa risolvere questa problematica [18].

Marcatori biochimici di danno cellulare, come l’interleuchina 6 e la proteina C reattiva [16], sono al giorno d’oggi considerati avere bassa specificità, e perciò non rientrano tra gli strumenti diagnostici raccomandabili [9].

L’ecografia del collo costituisce uno strumento indispensabile nell’approccio all’AIT, consentendo di definire il volume tiroideo, la presenza di noduli, l’ecogenicità parenchimale e la vascolarizzazione mediante color Doppler [9]. Tuttavia, l’ecografia non fornisce informazioni funzionali; pertanto, anche se non è raro che vi siano aree di autonomia funzionale nel contesto di un gozzo nodulare, la presenza di noduli tiroidei non implica necessariamente una diagnosi di AIT1 [17]. Di maggiore utilità è l’utilizzo del Doppler, che dimostra una vascolarizzazione normale o aumentata nella gran parte dei pazienti affetti da AIT1 e un’assenza di ipervascolarizzazione nei pazienti con AIT2.

La captazione-scintigrafia tiroidea con 131-I ha un importante ruolo diagnostico, risultando la captazione soppressa nella AIT2 e più variabile (ma non soppressa) nella AIT1 [9]. È stato proposto l’utilizzo di altri radionuclidi, come ad esempio marcatori di vitalità cellulare (ad esempio 99mTc-sestaMIBI) [19], la cui utilità non è stata pienamente confermata [9].

Approccio terapeutico alla tireotossicosi da amiodarone

La scelta terapeutica per l’AIT deve essere ritagliata sulle caratteristiche del singolo paziente [9]. L’approccio terapeutico a questa patologia è storicamente considerato impegnativo, data la difficoltà di impostare la terapia appropriata su una diagnosi differenziale non scontata, la frequente assenza di una rapida risposta all’inizio della terapia farmacologica, e la coesistenza di comorbidità cardiologiche di rilievo che di per sé rendono necessario un rapido ripristino dell’eutiroidismo [9]. Terapie farmacologiche e intervento chirurgico di tiroidectomia totale sono opzioni terapeutiche possibili, sicuramente non sullo stesso piano o mutualmente alternative, ma che trovano indicazioni ben definite [17].

È tuttora argomento di discussione se sia necessario sospendere l’assunzione di amiodarone alla diagnosi di AIT, anche in considerazione della lunga emivita del farmaco. Tale decisione deve essere presa sul singolo paziente tenendo in considerazione, soprattutto, le sottostanti condizioni cardiologiche: ad esempio, sarà preferibile evitare la sospensione del farmaco nel paziente affetto da aritmie gravi o da una forte compromissione della funzione ventricolare sinistra, in cui il passaggio ad altro antiaritmico potrebbe avere un effetto peggiorativo [9].

La terapia farmacologica dell’AIT1 si avvale dei farmaci antitiroidei (metimazolo e propiltiouracile) [2, 9]. Rispetto a quanto osservabile in altre forme di ipertiroidismo, nella AIT1 la tiroide sovraccarica di iodio è frequentemente meno responsiva a questi farmaci, rendendo necessario il ricorso a terapie a dosaggio più elevato protratte per tempi più lunghi: le linee guida americane suggeriscono un dosaggio di attacco di 40 mg giornalieri di metimazolo [20], mentre le europee di 40–60 mg giornalieri [9]. L’aggiunta di perclorato è stata proposta con il fine di esaurire i depositi tiroidei dello iodio accumulato aumentando, dunque, la sensibilità alle tionamidi [2]: nel caso venisse adottato questo approccio, è raccomandabile non eccedere il dosaggio di 1 g/die di perclorato e non protrarre la terapia oltre le 4–6 settimane [9, 20]. La reintroduzione dell’amiodarone dopo il ripristino dell’eutiroidismo mediante terapia farmacologica si associa nella AIT1 a un rischio >70% di recidiva dell’ipertiroidismo [21]. Questo impone di prendere in considerazione per la sottostante tireopatia una terapia definitiva, o mediante 131-I (che potrà essere effettuato solo dopo smaltimento del carico iodico) o mediante tiroidectomia totale.

La terapia farmacologica dell’AIT2 si avvale dei glucocorticoidi, mentre in questo contesto non è stato osservato alcun ruolo per le tionamidi [22] o il perclorato [23]. Come per la AIT1, anche in questo caso si rendono necessarie terapie a dosaggi elevati: le linee guida americane suggeriscono una dose di attacco con 40 mg giornalieri di prednisone [20], le europee con 30 mg giornalieri [9], o dosaggi equivalenti di altri cortisonici. In alcuni casi si possono osservare risposte significative, con il ripristino dell’eutiroidismo in poche settimane; tuttavia, circa la metà dei pazienti presenta una risposta tardiva, rendendo necessaria la somministrazione di cortisonici per diversi mesi; fattori predittivi di risposta alla terapia sono la gravità della tireotossicosi alla diagnosi di malattia e il volume tiroideo [24]. La somministrazione di boli endovenosi di cortisone, recentemente proposta come possibile approccio d’urgenza all’AIT2, ha portato a risultati contrastanti in diversi trial clinici [25, 26].

Nelle forme miste o indefinite è possibile somministrare una combinazione di tionamidi e glucocorticoidi, ai dosaggi sopra riportati. Le linee guida americane suggeriscono di iniziare da subito la terapia di combinazione in tutti i casi dubbi [20], mentre le europee suggeriscono di valutare se iniziare da subito una terapia di combinazione oppure iniziare con un trial di tionamidi per le prime 4–6 settimane, trascorse le quali eventualmente aggiungere il cortisonico [9]. La terapia di combinazione dovrebbe essere riservata ai soli casi misti o indeterminati dopo un’attenta ed esaustiva diagnosi differenziale tra AIT1 e AIT2, poiché la somministrazione inopportuna di cortisonici può avere effetti negativi sul paziente cardiopatico, specie se affetto da policomorbidità, mentre la somministrazione inopportuna di tionamidi si associa a un rischio di effetti collaterali maggiore in questo contesto rispetto all’ipertiroidismo di altra eziologia [27].

L’intervento chirurgico di tiroidectomia totale costituisce una valida opzione terapeutica in centri specializzati dove vi sia un’équipe multidisciplinare dedicata. L’intervento può essere preso in considerazione o come trattamento di emergenza (c.d. salvage thyroidectomy) in caso di rapido deterioramento della funzionalità cardiaca e di aritmie maligne, oppure come trattamento elettivo dopo un preliminare ripristino dell’eutiroidismo ottenuto mediante terapia farmacologica per risolvere la sottostante tireopatia. Nel paziente affetto da compromissione della funzione sistolica ventricolare sinistra (considerata di per sé fattore di rischio per eventi cardiovascolari e mortalità nel contesto della AIT [13]), l’intervento chirurgico è risultato addirittura protettivo rispetto alla terapia farmacologica sia sulla sopravvivenza cardiovascolare a 5 anni, sia sulla sopravvivenza globale a 10 anni [17]. Limitatamente a questo specifico contesto, l’intervento chirurgico effettuato in condizioni di urgenza quando il paziente è ancora tireotossico si è dimostrato avere una migliore prognosi rispetto all’intervento elettivo rimandato a un preliminare ripristino dell’eutiroidismo da ottenere mediante terapie farmacologiche di lunga durata [28].

Conclusioni

Un approccio contemporaneo ed esaustivo all’AIT deve tenere di conto che l’impatto prognostico importante associato a questa patologia deriva dal crearsi di una triangolazione di fattori (Fig. 3) costituita da:

  • presenza di una sottostante cardiopatia e, talvolta, di un compenso cardiologico precario;

  • tireotossicosi di entità spesso grave;

  • lunga durata di malattia attribuibile a frequenti ritardi diagnostici e alla frequente non immediata responsività alle terapie farmacologiche appropriate.

Fig. 3
figure 3

Triangolo dei determinanti della tireotossicosi da amiodarone

Nel corso degli ultimi anni è progressivamente cambiato il target relativamente alla finalità del trattamento per l’AIT. Siamo passati da un punto di vista puramente “endocrinologico”, che valutava la terapia per l’AIT esclusivamente in base al suo effetto sulle concentrazioni degli ormoni tiroidei, a un punto di vista più generale, che identifica come fine ultimo la prevenzione degli eventi cardiovascolari e la sopravvivenza. Con questa premessa, la triangolazione di fattori sopra descritti dovrà avvalersi di un approccio integrato che rispettivamente consideri:

  • corretto inquadramento e follow-up cardiologico del paziente, che potrebbe fin dalla prima diagnosi o in qualsiasi momento nel corso della malattia dover essere indirizzato a un trattamento di emergenza;

  • corretto inquadramento diagnostico del tipo di AIT, con conseguente applicazione di una terapia farmacologica mirata e razionale;

  • definizione delle più appropriate strategie di trattamento in funzione del tempo, con la necessità di evitare protratte esposizioni alla tireotossicosi, fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di eventi cardiovascolari e di mortalità.