Introduzione

Denosumab (Dmab) è un anticorpo monoclonale umano diretto contro il ligando dell’attivatore del recettore del fattore nucleare \(\kappa \)B (RANKL), approvato alla posologia di 60 mg sottocute ogni sei 6 mesi per il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale e maschile, dell’osteoporosi indotta da glucocorticoidi e della perdita ossea associata alla terapia ormonale adiuvante in uomini e donne con carcinoma della prostata e della mammella non metastatico. Prevenendo l’interazione RANKL-RANK sulla superficie degli osteoclasti e dei loro precursori, Dmab inibisce il reclutamento, la maturazione, la funzionalità e la sopravvivenza degli osteoclasti, determinando una marcata riduzione del riassorbimento osseo, sia a livello dell’osso corticale che trabecolare. Tale effetto si traduce clinicamente in una rapida e profonda soppressione dei marcatori di turnover osseo (Bone Turnover Markers, BTM), un graduale e continuo aumento della densità minerale ossea (Bone Mineral Density, BMD) e una sostenuta riduzione del rischio di fratture vertebrali (FV) e non vertebrali, con un buon profilo di sicurezza fino a 10 anni di trattamento [1, 2]. A differenza dei bisfosfonati (BPs), Dmab non viene stabilmente incorporato nella matrice ossea. Pertanto, all’interruzione del trattamento il suo potente effetto anti-riassorbitivo risulta rapidamente reversibile e si osserva una risposta nota come “effetto rebound” (o “fenomeno da rimbalzo”) post-sospensione di Dmab, caratterizzata da brusco incremento del turnover osseo e rapida perdita dei guadagni di BMD ottenuti in corso di terapia [36]. I risultati di un’analisi post hoc dello studio registrativo di fase 3 FREEDOM sembravano inizialmente rassicuranti rispetto alle preoccupazioni della comunità medica che tale riattivazione di rimbalzo del turnover osseo potesse ripercuotersi in un aumento del rischio fratturativo alla sospensione di Dmab, riportando un’incidenza di fratture paragonabile in donne che avevano interrotto Dmab rispetto a quelle esposte a placebo [7]. Tuttavia, analisi successive più approfondite hanno dimostrato chiaramente che l’interruzione di Dmab è significativamente e specificamente associata a un incremento del rischio di FV multiple (≥2) [8]. Tali evidenze hanno messo in luce come la terapia con Dmab non possa essere interrotta senza prevedere un successivo trattamento anti-riassorbivo atto a contrastare l’aumento di rimbalzo del turnover osseo [912]. È inoltre clinicamente rilevante l’evidenza che l’effetto rebound possa verificarsi anche con il semplice ritardo della somministrazione di Dmab [13]. Risulta quindi di fondamentale importanza, per il Bone Specialist endocrinologo e per qualunque specialista coinvolto nel trattamento dell’osteoporosi e delle malattie osteometaboliche, conoscere nel dettaglio le seguenti tematiche, fatte oggetto di questa Rassegna: 1) caratteristiche e aspetti fisiopatologici dell’effetto rebound post-sospensione di Dmab; 2) principali fattori di rischio per l’insorgenza di FV associate al rebound (RAFV); 3) durata ottimale di trattamento con Dmab (in chi e quando interromperla); 4) come i diversi regimi di trattamento anti-osteoporotico pre e post-Dmab possono influenzare il fenomeno da rimbalzo; e 5) quali sono le più recenti raccomandazioni evidence-based per la gestione clinica dell’interruzione di Dmab e delle RAFV. La presente Rassegna è stata proposta anche in riferimento ai risultati controversi di un recente weekEndo (http://www.societaitalianadiendocrinologia.it/public//pdf/quiz176.pdf) dedicato alla gestione del trattamento anti-osteoporotico con Dmab.

Caratteristiche e aspetti fisiopatologici dell’effetto rebound post-sospensione di Denosumab

Effetti su metabolismo e struttura ossea

L’interruzione della terapia con Dmab determina significativi cambiamenti nelle attività di rimodellamento osseo e nella struttura ossea (Fig. 1a,b). Analisi istomorfometriche condotte su biopsie ossee di cresta iliaca in pazienti che avevano interrotto Dmab senza successiva terapia sequenziale hanno mostrato un aumento del numero di osteoclasti, della superficie degli osteoclasti e della superficie ossea erosa, insieme a un aumento del numero di osteoblasti e della superficie ossea coperta da osteoblasti, mentre il numero di lacune osteocitarie vuote si manteneva elevato come in corso di trattamento [14, 15]. Ne deriva un’importante compromissione della struttura ossea, con diminuzione sia dello spessore corticale sia del volume di osso trabecolare, oltre a un aumento della quantità di tessuto osseo non mineralizzato conseguente alla rapida accelerazione del turnover scheletrico [12].

Fig. 1
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Rappresentazione schematica degli effetti di Dmab (\(\mathbf{a}\)) e della sua sospensione (\(\mathbf{b}\)) a livello osseo. Adattata da [12]. Created with Biorender.com

Effetti sui marcatori di turnover osseo

La sospensione di Dmab porta a un importante e rapido incremento dei BTM, spesso a livelli superiori a quelli osservati pre-trattamento. Seppur con una certa variabilità interindividuale, sia il telopeptide C-terminale del collagene di tipo I sierico (CTX; marcatore di riassorbimento osseo), sia il propeptide N-terminale del procollagene di tipo 1 (P1NP; marcatore di formazione ossea) iniziano ad aumentare rapidamente 6 mesi dopo l’ultima iniezione di Dmab, superando i valori basali pre-trattamento in media 3 mesi dopo la sospensione del farmaco (9 mesi dopo l’ultima iniezione), per poi tornare lentamente ai livelli basali dopo circa 24 mesi (30 mesi dall’ultima iniezione) [35]. Un pregresso trattamento con BPs potrebbe avere un effetto protettivo sull’aumento dei BTM, come suggerito da uno studio retrospettivo su 37 pazienti con osteoporosi che hanno interrotto Dmab, nei quali la pregressa esposizione a terapia con BPs si associava a un minore incremento delle concentrazioni di CTX rispetto ai pazienti trattati con Dmab in prima linea [16].

Effetti sulla densità minerale ossea

L’interruzione di Dmab è associata a una significativa riduzione di BMD in tutti i siti scheletrici (lombare, collo femorale, femorale totale, radio distale), con perdita completa o pressoché tale del guadagno densitometrico ottenuto con la terapia e ritorno ai valori pre-trattamento entro 2 anni dal termine della stessa. La maggior parte di questa perdita si verifica rapidamente ed è evidente già 8–12 mesi dopo l’ultima somministrazione del farmaco. Il tasso di diminuzione della BMD riportato durante il primo anno di sospensione è di circa il 5–11% in tutti i siti [46, 17]. Inoltre, è stato osservato che pazienti trattati con Dmab per periodi più lunghi riportano perdite di BMD più pronunciate dopo l’interruzione della terapia, a indicare che la durata del trattamento con Dmab potrebbe predire la velocità e l’entità della perdita ossea alla sua sospensione [6]. In linea con quanto precedentemente riportato per i BTM, un pre-trattamento con BPs potrebbe ridurre il grado di perdita di BMD post-sospensione di Dmab [11, 12, 18].

Effetti sul rischio fratturativo

Come detto, l’interruzione di Dmab si accompagna a un aumentato rischio di fratture da fragilità, in particolare di FV [19, 20]. L’incidenza stimata di FV in questo contesto è intorno all’8–10% [6, 19], mentre l’impatto sul rischio di fratture non vertebrali non è ancora chiaramente definito. Le RAFV, oltre a essere tipicamente multiple, sono spesso cliniche e si verificano in un tempo relativamente breve dall’esaurimento dell’effetto dell’ultima dose di Dmab (7–18 mesi dopo l’ultima somministrazione del farmaco, con una mediana di 10 mesi) [8, 12]. Secondo alcune recenti evidenze, anche un ritardo di 4 mesi nella somministrazione di Dmab aumenta significativamente il rischio di RAFV e in alcuni casi le fratture possono verificarsi in modo sequenziale anziché simultaneo [12, 20]. Complessivamente, il sito più colpito risulta essere la giunzione toraco-lombare, come per le comuni FV osteoporotiche, a suggerire un’eziopatogenesi simile nonostante il maggior numero e la maggior severità che caratterizzano le RAFV rispetto a normali FV da fragilità [12].

In sintesi, all’interruzione del trattamento con Dmab si verifica una rapida reversione del suo potente effetto anti-riassorbitivo, con brusco incremento del turnover osseo, rapida perdita di BMD e conseguente aumento del rischio fratturativo, in particolare a livello vertebrale. La fisiopatologia di tale fenomeno di rimbalzo non è ancora completamente chiarita; tuttavia, si ipotizza che sia correlato all’improvvisa riattivazione di un esteso pool di precursori osteoclastici fino ad allora mantenuti quiescenti dalla sostenuta inibizione di RANKL mediata da Dmab e al successivo incremento dell’osteoclastogenesi e dell’attività osteoclastica al venir meno dell’effetto farmacologico. La maggiore attività di rimodellamento che interessa le superfici di osso trabecolare più che corticale potrebbe spiegare il perché la colonna vertebrale, a prevalente composizione trabecolare, sia il sito scheletrico più colpito dal fenomeno di rimbalzo [12].

Fattori di rischio per fratture vertebrali associate al rebound

I principali fattori di rischio per RAFV identificati a un’analisi post-hoc degli studi FREEDOM e FREEDOM Extension Trial includono: FV prevalenti, una più lunga durata del periodo di sospensione di Dmab, un maggiore guadagno di BMD a livello femorale totale in corso di trattamento e una maggiore perdita di BMD al femore totale dopo l’interruzione della terapia [8]. Tra questi, la presenza di FV occorse prima o durante il periodo di trattamento risulta essere il più importante fattore predittivo di nuove RAFV, verosimilmente in quanto indice di una salute scheletrica già compromessa e, quindi, di suscettibilità a ulteriori eventi fratturativi [12].

Anche il tasso di perdita di BMD dopo l’interruzione di Dmab potrebbe costituire di per sé un fattore di rischio per lo sviluppo di RAFV e FV multiple, in quanto è stata osservata una perdita di BMD maggiore post-sospensione di Dmab in soggetti che avevano riportato FV (multiple o singola) rispetto a pazienti che non avevano subito FV [21]. Un più lungo periodo di trattamento con Dmab è stato associato a un maggiore rialzo dei BTM, maggiore perdita di BMD e, in alcuni studi, a un maggior numero di RAFV e a uno sviluppo più precoce di RAFV [12, 17, 22]. La giovane età è stata correlata a una maggiore perdita di BMD dopo interruzione di Dmab [18, 22] e in un piccolo studio osservazionale il numero di RAFV sviluppate in sospensione del trattamento è risultato inversamente proporzionale all’età dei pazienti [23].

Il gruppo di Anastasilakis e colleghi ha per primo identificato la vertebroplastica come possibile fattore precipitante ulteriori FV post-sospensione di Dmab, in particolare a livello delle vertebre adiacenti, forse in ragione delle maggiori forze di compressione esercitate dalle vertebre trattate su vertebre vicine già compromesse e inclini a un evento fratturativo [12]. In uno studio di popolazione su 1500 pazienti che avevano interrotto Dmab, la presenza di malattia renale cronica è risultata associata a un rischio di frattura più elevato [19]. Sebbene un pre-trattamento con BPs sembri in grado di ridurre l’aumento di ribalzo dei BTM e, forse, anche di limitare la perdita di BMD, non è attualmente possibile stabilire con certezza se una pregressa esposizione a BPs influenzi il rischio di RAFV dopo sospensione di Dmab, data la mancanza studi ad hoc specificamente disegnati con tale obiettivo.

In chi e quando sospendere la terapia con Denosumab?

La decisione di sospendere la terapia con Dmab e quale sia il momento più opportuno per interromperla sono questioni cliniche di cruciale importanza nella gestione di una malattia cronica come l’osteoporosi. I dati di sicurezza ed efficacia attualmente disponibili per Dmab ne supportano l’utilizzo fino a 10 anni di trattamento consecutivi [2] e una prima ri-valutazione del rischio fratturativo del singolo paziente è indicata dopo 5 anni di terapia, al fine di stabilire l’opportunità di sospendere o la necessità proseguire il trattamento anti-osteoporotico [10].

In pazienti che permangono ad alto rischio fratturativo, per pregresse fratture osteoporotiche (fratture di femore, vertebre, fratture periferiche in presenza di T-score lombare o femorale \(<-2{,}5\)) e/o comorbidità o sussistenza di significativi fattori di rischio per fragilità scheletrica (terapia cronica con glucocorticoidi, terapia con inibitori dell’aromatasi, diabete mellito, malattie infiammatorie, fragilità del paziente), è raccomandabile proseguire la terapia con Dmab fino alla soglia dei 10 anni di trattamento [11]. In attesa di risultati da studi clinici a più lungo termine, il superamento di tale la soglia può essere considerato su base individuale in specifiche condizioni cliniche, come ad esempio nei pazienti con insufficienza renale [11].

In pazienti non più giudicati ad alto rischio, invece, può essere ragionevole un approccio terapeutico treat-to-target, avendo come obiettivo di trattamento il raggiungimento di valori di BMD associati a un rischio fratturativo considerato accettabile [24]. È stato infatti osservato che in corso di terapia con Dmab l’incidenza di fratture non vertebrali è inversamente correlata ai valori di T-score ottenuti al femore totale, con diminuzione del rischio fratturativo all’aumentare dei valori densitometrici fino al raggiungimento di un plateau per valori di T-score compresi tra −2,0 e −1,5; un simile andamento è stato descritto anche per il rischio di fratture non vertebrali in relazione ai valori di T-score al collo femorale e per il rischio di FV, tuttavia senza una soglia restrittiva di T-score [25]. Pertanto, in assenza di un profilo di rischio elevato per fratture, il raggiungimento di valori densitometrici in range osteopenico potrebbe determinare il momento in cui il rischio fratturativo, soprattutto per fratture non-vertebrali, ha raggiunto un livello minimo e non si prevedono ulteriori benefici con la prosecuzione della terapia anti-riassorbitiva [12].

In ogni caso, è richiesta ab initio un’attenta valutazione dell’indicazione a intraprendere un trattamento con Dmab, soprattutto in pazienti giovani, in quanto inevitabilmente destinati a sospendere la terapia e potenzialmente a maggior rischio di perdita ossea e sviluppo di RAFV alla sua interruzione [11].

Nell’eventualità in cui il paziente necessiti di interventi odontoiatrici invasivi in corso di Dmab, non è richiesta una sospensione del trattamento anti-riassorbitivo ma è fondamentale un’attenta programmazione della procedura odontoiatrica rispetto alle somministrazioni di Dmab previste, al fine di limitare il rischio di osteonecrosi delle ossa mascellari [26].

Gestione clinica dell’interruzione di Denosumab

Evidenze disponibili

Chiarita la rapida reversibilità degli effetti scheletrici di Dmab alla sua sospensione, si è resa evidente la necessità di definire una strategia terapeutica sequenziale atta a contrastare la perdita di massa ossea e prevenire le FV da rimbalzo.

L’efficacia dei BPs orali dopo interruzione di Dmab è stata valutata in studi eterogenei per disegno, tipologia di BPs e durata di trattamento. Alcuni studi osservazionali hanno mostrato un aumento dei BTM meno pronunciato e una minore perdita di BMD in pazienti trattati con vari BPs orali alla sospensione di Dmab [5, 2729]. L’effetto protettivo sul rischio di RAFV, invece, seppur suggerito da alcune casistiche [2830], è ancora dibattuto, essendo stati descritti anche casi di FV multiple nonostante trattamento preventivo con BPs orali [31]. Considerando i singoli principi attivi, i pochi dati attualmente disponibili porterebbero a favorire l’utilizzo dell’alendronato, mentre il risedronato sembrerebbe meno efficace nel mantenere il guadagno densitometrico ottenuto post-Dmab [32, 33].

L’efficacia di una singola infusione di zoledronato 5 mg per via endovenosa (e.v.) nel contrastare l’effetto rebound è stata valutata in diverse serie di casi e studi osservazionali, che ne hanno evidenziato un effetto parzialmente protettivo sia sul mantenimento della BMD, sia sul rischio di fratture, in particolare quando effettuata a 6 mesi dall’ultima somministrazione di Dmab e per durate di trattamento con Dmab <2,5 anni [11, 12, 30, 34]. Tali risultati sono stati confermati anche in due recenti trial clinici randomizzati [22, 35]. Parallelamente, è stato dimostrato un possibile aumento secondario dei BTM già a 3 mesi dall’infusione di zoledronato post-Dmab, suggerendo la necessità di un monitoraggio ravvicinato al fine di identificare i pazienti che presentino una ricaduta nell’aumento del turnover osseo e che potrebbero quindi essere candidati a un’ulteriore somministrazione di zoledronato [36].

I dati attualmente disponibili sull’uso dei SERM non sono molto promettenti e suggeriscono che tali agenti non siano in grado di prevenire la perdita ossea associata al rebound e lo sviluppo di RAFV [11].

Relativamente ai farmaci anabolici, una terapia sequenziale Dmab-teriparatide determina un ulteriore incremento nel rimodellamento osseo ed è stata associata a una rapida perdita di massa ossea, soprattutto a livello dei distretti ricchi di osso corticale, con possibile peggioramento del rischio fratturativo, rendendola una strategia non raccomandabile [37]. Al contrario, alcune evidenze indicano che un ciclo di 12 mesi di romosozumab dopo terapia con Dmab determina un aumento della BMD, anche se più modesto rispetto a quanto osservato in pazienti che ricevono romosozumab naïve al trattamento [38]. Tuttavia, rimane ancora da dimostrare se tale effetto si traduca in una prevenzione delle fratture da fragilità.

Raccomandazioni per la pratica clinica

Le più recenti raccomandazioni per la gestione clinica dei pazienti alla sospensione di Dmab sono quelle formulate dalla European Calcified Tissue Society (ECTS) in un Position Statement pubblicato nel 2020 (Fig. 2) [11]. Partendo da una revisione sistematica delle evidenze al momento disponibili in letteratura, il gruppo di esperti dell’ECTS ha proposto quanto segue:

  • per contrastare l’innalzamento del turnover osseo e la perdita di BMD dopo sospensione di Dmab, è necessario prescrivere un aminobisfosfonato a elevata potenza anti-riassorbitiva, sebbene non sia ancora certo quale sia il regime ottimale di trattamento con BPs da applicare;

  • poiché la durata della terapia con Dmab è stata identificata come un potenziale fattore condizionante l’entità dell’effetto rebound e stante la scarsità di dati disponibili relativamente all’efficacia dei BPs orali nel prevenire l’aumento del turnover osseo e la perdita di massa ossea dopo un lungo periodo di trattamento con Dmab, in pazienti in pregressa terapia con Dmab di lunga durata (>2,5 anni) andrebbe prediletta la somministrazione di zoledronato per via endovenosa;

  • in pazienti trattati con Dmab per una durata <2,5 anni o qualora la somministrazione di zoledronato dopo interruzione di un trattamento di più lunga durata con Dmab non sia possibile per indisponibilità, intolleranza o preferenze del paziente, è indicata in alternativa la prescrizione di un BP orale;

  • la risposta alla terapia di consolidamento con BPs è da valutare mediante dosaggio dei BTM e monitoraggio della BMD mediante densitometria ossea (DEXA); la misurazione dei BTM è da effettuare inizialmente ogni 3 mesi, quindi, ogni 6 mesi in caso di risposta stabile e adeguata, definita da un valore di CTX inferiore a 280 ng/L o di P1NP inferiore a 35 μg/L, ovvero valori nella metà inferiore dell’intervallo di riferimento in premenopausa; la DEXA andrebbe eseguita al momento dello switch terapeutico al BP (6 mesi dopo l’ultima iniezione di Dmab) e successivamente a 1–2 anni, al momento di decidere l’eventuale interruzione del trattamento;

  • quando la scelta terapeutica ricade su un BP orale, è consigliabile iniziare il trattamento intorno ai 6 mesi dall’ultima somministrazione di Dmab e, in caso di risposta adeguata e basso rischio fratturativo, proseguirlo per 12–24 mesi; nei casi di intolleranza gastrointestinale o inadeguata risposta ai BPs orali, si raccomanda la somministrazione di zoledronato e.v.;

  • l’infusione di zoledronato andrebbe programmata 6 mesi dopo l’ultima fiala di Dmab, monitorando la risposta mediante dosaggio dei BTM dopo 3 e 6 mesi; in caso di aumento degli indici dei BTM al di sopra dei valori soglia precedentemente enunciati o di indisponibilità dei BTM per il monitoraggio dei pazienti, può essere presa in considerazione un’ulteriore infusione di zoledronato 6 mesi dopo la prima;

  • in ogni caso, la successiva prosecuzione del trattamento con BPs oltre i 12–24 mesi (tempo stimato per la normalizzazione del turnover osseo dopo l’effetto rebound), è da valutare su base individuale, in funzione dell’andamento dei BTM, del quadro densitometrico e del profilo di rischio fratturativo del singolo paziente.

Fig. 2
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Riassunto delle raccomandazioni per la gestione clinica dell’interruzione di Denosumab. Adattata da [11]. Created with Biorender.com

Gestione clinica delle fratture vertebrali associate al rebound

In merito alla gestione delle RAFV dopo sospensione di Dmab, l’ECTS ha formulato le seguenti raccomandazioni [11]:

  • il ricorso alla vertebloplastica è sconsigliato, in quanto possibile fattore precipitante nuove FV nell’immediato periodo post-procedurale;

  • data la necessità di contrastare rapidamente l’aumento del turnover scheletrico e considerata l’alta efficacia di Dmab come farmaco anti-riassorbitivo, in assenza di controindicazioni, è raccomandabile reintraprendere la terapia con Dmab, pur con la consapevolezza che il ripristino della terapia non elimina completamente il rischio di nuove FV;

  • in alternativa alla reintroduzione di Dmab, è possibile prescrivere un BP (orale o zoledronato) capace di sopprimere rapidamente il turnover osseo;

  • la monoterapia con teriparatide non è raccomandata, dato il possibile peggioramento del rischio fratturativo; una strategia alternativa, per contrastare tale effetto e al tempo stesso stimolare la neoformazione ossea, potrebbe essere quella di combinare Dmab e teriparatide (sebbene al momento non sia previsto rimborso di tale schema terapeutico), per poi consolidare i guadagni di BMD ottenuti con la terapia di combinazione mediante somministrazione di un anti-riassorbitivo potente come lo zoledronato.

Gestione dell’interruzione involontaria di Denosumab nel tempo della pandemia COVID-19

La pandemia COVID-19 e il conseguente stato di emergenza sanitaria hanno posto non poche difficoltà nell’accesso dei pazienti alle visite di controllo ambulatoriali programmate e alle cure specialistiche ospedaliere, mettendo potenzialmente a rischio la compliance a terapie, come quella con Dmab, in cui aderenza e puntualità nelle somministrazioni di farmaco sono di fondamentale importanza al fine, nel caso specifico, di limitare il rischio di effetto rebound e di RAFV [13].

Allo scopo di assistere i clinici nella gestione dei pazienti affetti da osteoporosi nell’era COVID-19, l’American Society for Bone and Mineral Research (ASBMR), l’AACE, la Endocrine Society, l’ECTS e la National Osteoporosis Foundation (NOF) hanno pubblicato una guida congiunta, essenzialmente basata sull’opinione di esperti, in cui relativamente alla terapia con Dmab gli autori raccomandano che pazienti impossibilitati a ricevere l’iniezione di farmaco prevista entro 7 mesi dalla precedente vengano passati a un BP orale come l’alendronato settimanale, per poi reinstaurare il trattamento originario con Dmab non appena le circostanze lo permettano. In pazienti con disturbi gastrointestinali, vengono consigliati in alternativa l’ibandronato mensile o il risedronato settimanale/mensile, mentre in pazienti con insufficienza renale cronica (eGFR < 30–35 mL/min) può essere preso in considerazione l’utilizzo off-label di una dose inferiore di BP orale (es. alendronato 35 mg a settimana o 70 mg bisettimanali) [39].