Introduzione

Il diabete mellito gestazionale (DMG), definito come un’intolleranza al glucosio di varia entità che viene riconosciuta per la prima volta durante la gravidanza, è il disordine endocrino-metabolico a maggiore prevalenza nelle donne gravide e porta con sé un alto rischio di complicanze materno-fetali, sia immediate che a distanza [1]. Seppur con variazioni nelle stime di prevalenza tra i singoli stati, e talvolta anche tra regioni, legate, in parte, a differenze sostanziali nei criteri diagnostici adottati per la definizione di iperglicemia in gravidanza (Tabella 1), nonché a motivi etnici o ambientali, una donna in gravidanza su sette nel mondo risulta essere affetta da DMG [1]. Nella maggior parte dei casi, il DMG si risolve entro le prime 6–12 settimane dal parto; tuttavia, nelle madri che ne sono state affette, persiste un alto rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2 (DMT2), sindrome metabolica e malattia cardiovascolare nel corso della vita [2]. I rischi metabolici a lungo termine del DMG si ripercuotono anche sul feto, conferendogli un aumentato rischio di obesità, DMT2 e disturbi dello sviluppo neurologico in età evolutiva [13].

Tabella 1 Raccomandazioni contenute nelle principali linee guida internazionali e nazionali relative alla diagnosi di diabete mellito gestazionale (DMG) con test OGTT (modificata da [1] e da [2]). IADPSG, International Association of the Diabetes and Pregnancy Study Groups; ACOG, American College of Obstetricians and Gynecologists; CDA, Canadian Diabetes Association; NICE, National Institute for Health and Care Excellence; ADIPS, Australasian Diabetes in Pregnancy Society; GCT, glucose challenge test con 50 g di glucosio (minicarico); OGTT, oral glucose tolerance test con 75 g o 100 g di glucosio a seconda della linea guida di riferimento; *, basta 1 valore soglia per la diagnosi; **, sono necessari almeno 2 valori soglia per la diagnosi; a, le linee guida NICE, ADIPS e del Ministero della Salute raccomandano una strategia diagnostica basata sulla stratificazione del rischio di DMG. Nelle donne classificate come a “rischio alto” è raccomandata l’esecuzione di un test OGTT aggiuntivo all’inizio del secondo trimestre. In Italia, tale test è effettuato a 16–18 settimane

Eziologia e fattori di rischio

L’eziologia del DMG è complessa e multifattoriale. La ricerca epidemiologica, corredata da alcuni lavori di base, ha negli anni messo in luce l’interazione, spesso sinergica, di molte condizioni predisponenti, classificabili in maniera schematica in fattori di rischio modificabili e non modificabili. Per quanto riguarda i fattori di rischio non modificabili, il DMG è maggiormente prevalente nelle donne con un’età materna avanzata, pluripare, di etnia asiatica, ispanica, caraibica, medio-orientale, o dell’Africa settentrionale, nelle donne con familiari di primo grado affetti da DMT2, e in quelle che hanno una diagnosi di sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) [2]. La storia familiare di DMT2, o l’etnia, a loro volta, potrebbero impartire specifici rischi genetici o epigenetici, ancora non del tutto chiariti nelle donne che sviluppano DMG durante la gravidanza. Sono molti, infatti, i polimorfismi genetici, responsabili di modeste alterazioni nella sintesi o nella funzione della proteina codificata, ad essere stati associati ad aumentato rischio di sviluppare DMG e DMT2. Alcuni di essi modulano la funzione beta cellulare e il rilascio di insulina (es. polimorfismi di TCF7L2, MTNR1B e KCNQ1); altri, invece, influenzano negativamente il segnale del recettore insulinico nei tessuti bersaglio (es. polimorfismi di CDKAL1 e IRS1) [2].

A differenza dei polimorfismi, i cambiamenti epigenetici rappresentano variazioni dell’espressione proteica, ovvero “spegnimenti” e “attivazioni” selettive di alcuni geni codificanti, che non sono causati da mutazioni del codice genetico, ma conseguono a iper- o ipo-metilazione del DNA, a modificazioni istoniche post-trascrizionali oppure ad alterazione dell’espressione di RNA non codificanti, circolanti o meno (es. di breve lunghezza, come i micro-RNA), indotti dall’invecchiamento, dallo stato nutrizionale, dalla composizione del microbiota, dai farmaci assunti e, più in generale, come risposta all’ambiente, potendo essere specifici per i diversi tipi cellulari e tissutali dell’organismo, inclusa la placenta. Come i polimorfismi, anche i cambiamenti epigenetici possono essere ereditati e condizionare, a lungo termine, un diverso rischio di malattia diabetica nella prole [2, 4]. In aggiunta ai fattori epigenetici suddetti, una lunga serie di ormoni e fattori biochimici di derivazione placentare, alcuni di essi di comune dosaggio nel primo trimestre (es. PAPP-A, frazione libera della \(\beta \)-HCG) [5], possono favorire l’insorgenza di complicanze della gravidanza, incluso il DMG.

I fattori di rischio modificabili sono invece quelli ambientali, ovvero associati allo stile di vita, e comprendono l’obesità pregravidica, un eccessivo incremento ponderale gestazionale, l’abitudine al fumo di tabacco e ad altre sostanze per uso voluttuario (es. marijuana) [2], oltre che il tipo di nutrizione e i livelli di attività fisica sia nel periodo preconcezionale che durante la gravidanza [6]. Diete ipercaloriche e/o di scarsa qualità, con un basso contenuto di fibre alimentari ed elevato consumo di alimenti ad alto indice glicemico o bevande zuccherate, aumentano il rischio di DMG, oltre a danneggiare a lungo termine la funzione beta-cellulare [6]. Altri fattori che influenzano il rischio di DMG, spesso correlati tra di loro e fortemente connessi, con un rapporto di causa-effetto, alla presenza di obesità e cattive abitudini alimentari o sedentarietà, sono fattori psico-affettivi (es. depressione) e psico-sociali (es. bassi livelli di istruzione, appartenenza a identità religiose che rendono inaccessibile lo sport alle donne o richiedono di indossare indumenti che impediscono la piena mobilità durante l’attività fisica e l’esercizio) [7].

Attività fisica ed esercizio fisico per la prevenzione del diabete mellito gestazionale, evidenze dalla letteratura scientifica

Nel 2011, una robusta metanalisi di studi osservazionali ha evidenziato come le donne che hanno alti livelli di attività fisica nel periodo preconcezionale o all’inizio della gravidanza presentino una riduzione del 24% del rischio di DMG rispetto alle donne dell’ultimo quantile che riportano bassi livelli [8]. Viceversa, nelle donne che riferiscono meno di 120 minuti settimanali di attività fisica complessiva si dimostra un aumento del 40% del rischio di DMG rispetto alle donne non sedentarie [8].

Nei pazienti con DMT2, al di fuori di uno stato di gravidanza, l’associazione di esercizio fisico aerobico e allenamento di resistenza (almeno 3 ore a settimana) a una dieta a basso contenuto di carboidrati, è in grado di migliorare la sensibilità all’azione sistemica dell’insulina, nonché la capacità ossidativa mitocondriale degli acidi grassi nel muscolo scheletrico e di ridurre l’accumulo ectopico di lipidi (es. diacilgliceroli e i loro metaboliti) nelle membrane plasmatiche [9]. A livello molecolare, ciò si traduce nel miglioramento dell’efficienza nella trasmissione del segnale a valle del recettore insulinico, maggiore traslocazione sulla citomembrana del trasportatore del glucosio insulino-dipendente GLUT4 e conseguente aumento dell’uptake di glucosio nelle cellule muscolari, determinando la riduzione dell’iperglicemia, in parte favorita anche dalla vasodilatazione e dalla maggiore superficie capillare disponibile per gli scambi metabolici nel muscolo scheletrico allenato [9, 10]. Probabilmente, gli stessi effetti insulino-sensibilizzanti sarebbero da osservarsi anche nelle donne con DMG e, più in generale, nelle donne in gravidanza, ma in questo caso una restrizione dei carboidrati con chetosi è fortemente sconsigliata per la documentata associazione di questa condizione con l’incremento del rischio di anomalie congenite e di esiti avversi neonatali e infantili [11].

Analogamente, seppur le diverse linee guida siano tra loro eterogenee nelle raccomandazioni in merito a frequenza, durata, struttura e intensità dell’esercizio fisico da svolgersi in gravidanza (Tabella 2) [1214], tutte ricordano la possibilità di controindicazioni assolute e relative specifiche che devono essere messe in luce dalla valutazione clinica globale della futura mamma (Tabella 3), oltre alle precauzioni da adottare per limitare il rischio di cadute e traumi fetali. In assenza di queste, tuttavia, l’attività fisica regolare di moderata intensità (es. 60–80% della frequenza cardiaca massima teorica, 30–60 min a sessione, 3–5 volte a settimana), iniziata prima o dopo il concepimento, è considerata sicura per il feto e in grado di apportare significativi benefici cardio-metabolici e ostetrici materni, tanto da essere sempre consigliata nella gestione della gravidanza fisiologica, indipendentemente dal rischio di DMG [15].

Tabella 2 Raccomandazioni contenute nelle principali linee guida internazionali e nazionali per l’esercizio fisico in gravidanza. FC-max, frequenza cardiaca massima teorica; FC-ris, frequenza cardiaca di riserva; MET, Metabolic equivalent of task; a, evitando esposizioni ad alte temperature o a condizioni ambientali estreme (incluse altezze superiori a 2500 m)
Tabella 3 Controindicazioni assolute o relative all’esercizio fisico in gravidanza

Molti dei benefici dell’attività fisica e/o dell’esercizio fisico in gravidanza, intesi come parte integrante di un intervento multimodale di modifica dello stile di vita (nutrizionale, comportamentale), sono da ascriversi al contenimento dell’incremento ponderale gestazionale [16]. Infatti, come evidenziato da una metanalisi raggruppante studi su oltre un milione di donne, un incremento di peso superiore a quello ritenuto “ideale” dalle raccomandazioni dell’Institute of Medicine (IOM) e variabile a seconda del BMI pregravidico (madre normopeso, sovrappeso o obesa) da 18 a 5 Kg, si associa a un rischio maggiore di nascite large-for-gestational age (LGA), macrosomia fetale e parti cesarei [17].

Nonostante dati incoraggianti provenienti da studi osservazionali [8], il ruolo dell’attività fisica e/o dell’esercizio fisico per la prevenzione del DMG nelle donne a rischio resta incerto. L’ultima revisione sistematica Cochrane di RCT, che confrontava l’effetto di un intervento basato sul solo esercizio fisico per la prevenzione del DMG rispetto alle cure prenatali standard, non è risultata conclusiva (3 RCT, 826 donne, RR 1,10; 95% IC da 0,66 a 1,84) [17]. La tipologia di interventi proposti nei singoli RCT comprendeva programmi di esercizio terapeutico individualizzati o una combinazione di sessioni supervisionate e non supervisionate da eseguirsi tre volte la settimana a partire dalla dodicesima-ventiquattresima settimana di gestazione, con eterogeneità relativa all’intensità dell’esercizio fisico somministrato alle gestanti, e nelle informazioni riguardanti le altre forme di attività fisica svolte, prescindendo dalla partecipazione all’RCT. Inoltre, nessun RCT ha valutato l’efficacia di programmi di esercizio fisico individualizzati iniziati prima della gravidanza o nell’intervallo tra due gravidanze successive per la prevenzione del DMG [17].

L’eterogeneità degli RCT disponibili per le revisioni sistematiche, la mancata considerazione del periodo pre-concepimento nella finestra terapeutica, così come la scarsità di conoscenze relativamente alle caratteristiche delle gestanti in grado di predire una migliore o peggiore risposta a un intervento basato sul solo esercizio fisico, rappresentano lacune da colmare con nuove ricerche. Inoltre, sebbene possa sembrare logico aspettarsi una riduzione dell’incidenza di DMG nelle revisioni sistematiche di RCT che periodicamente analizzano l’efficacia di interventi multimodali di modifica dello stile di vita, notoriamente associati a importanti benefici preventivi nelle pazienti a rischio di DMT2 perché con una storia di DMG [18], non è chiaro perché questo risultato non sia stato finora riscontrato [19, 20]. Alcuni autori hanno ipotizzato che interventi multimodali, che prevedano simultaneamente l’avvio in gravidanza di programmi di esercizio fisico e modifiche dietetiche, possano risultare insostenibili per una donna che deve affrontare già i cambiamenti fisici, sociali, psicologici ed emotivi propri della maternità [19].

Il fatto che, indipendentemente da modifiche dietetiche eventualmente associate, i programmi di esercizio fisico avviati in gravidanza (a un’età gestazionale generalmente variabile dalla dodicesima alla trentesima settimana, più frequentemente tra la sedicesima e la ventesima) non siano risultati in grado di modificare significativamente il rischio di DMG nelle donne obese o in sovrappeso, come riportato in una recente metanalisi di RCT dedicata proprio a questa popolazione di gestanti (8 RCT, 1441 donne, RR 0,76; 95% IC da 0,56 a 1,02) [21], ci induce a pensare che un importante limite nella ricerca clinica sull’argomento riguardi proprio il timing dell’intervento preventivo per il DMG in rapporto a quello che dovrebbe essere il timing del test OGTT eseguito per la diagnosi di DMG che, in molti casi, non tiene conto del profilo di rischio della futura mamma.

L’importanza del timing nella diagnosi e prevenzione del diabete mellito gestazionale

Dal 2010, il consensus panel IADPSG fornisce la raccomandazione, accolta ormai da molti Stati, di eseguire uno screening universale per DMG basato su OGTT a 24–28 settimane in tutte le gestanti (Tabella 1), a seguito della dimostrazione, nello studio osservazionale multicentrico HAPO, che il rischio di macrosomia fetale è una funzione lineare dei valori di glicemia materna misurati (prima e dopo il carico di glucosio) in questa fase di gravidanza [1]. Tuttavia, negli ultimi anni sono subentrate nuove evidenze, alcune molto forti provenienti dall’NICHD americano, che indicano come l’accelerazione della crescita fetale, che è causata dall’iperglicemia materna e prelude allo sviluppo di macrosomia fetale, sia già in atto alla ventesima settimana di gestazione, segnalando di fatto al lettore come l’utilizzo della finestra delle 24–28 settimane per il test OGTT implichi un ritardo diagnostico considerevole nel riconoscimento del DMG [22].

Recentemente, il nostro gruppo di studio ha avuto modo di dimostrare che nelle donne classificabili come “a rischio alto” per le linee guida ministeriali italiane (ovvero donne con obesità pregravidica, pregresso DMG e/o alterata glicemia a digiuno documentata prima della gravidanza o nel primo trimestre) l’accelerazione della crescita fetale causata dall’iperglicemia materna non è solo un evento precoce nella storia naturale del DMG, ma anche una complicanza poco reversibile con una terapia normoglicemizzante (basata sull’integrazione di modifiche dietetiche, attività fisica ed eventuale insulina per via iniettiva, come da Standard di Cura) ritardata oltre la ventesima settimana di gestazione [22]. Se il timing ottimale per la diagnosi di DMG nelle donne “a rischio alto” richiede una nuova collocazione a 16–18 settimane su scala globale [22], come del resto già indicano le linee guida ministeriali italiane [15], al fine di consentire un sicuro ed efficace approccio terapeutico per la salvaguardia di madre e feto dalle complicanze del DMG, viene da sé che nelle donne con obesità o con altri fattori di rischio forti per il DMG, gli interventi preventivi basati su modifiche dello stile di vita (programmi di esercizio fisico, da soli o associati a modifiche nutrizionali e comportamentali) devono iniziare molto prima di questa finestra temporale per avere successo.

Nei pochi early intervention trials condotti, in cui programmi supervisionati di esercizio fisico di moderata intensità venivano iniziati a partire dalle 10–14 settimane di gestazione (sotto forma di sessioni da 50–60 minuti di esercizio a terra o in acqua, 3 volte a settimana) e mantenuti fino alla trentasettesima settimana, è stata osservata un’importante riduzione del rischio di DMG in donne (di etnia caucasica) normopeso “a rischio basso” (OR 0,10; 95% IC da 0,01 a 0,80) [23], e un dimezzamento dell’incidenza di DMG, altrimenti molto elevata, in donne (di etnia asiatica) sovrappeso o con obesità pregravidica considerabili a rischio “medio” o “alto” (22% gruppo di intervento \(vs\) 40,6% gruppo di controllo) [24]. Non è però chiaro se, nelle donne con obesità pregravidica, l’efficacia di questa intensità e timing di intervento basato su esercizio fisico supervisionato nella prevenzione del DMG sia del tutto sovrapponibile a quella relativa a donne sovrappeso, mancando un’analisi per sottogruppi [24]. Nelle donne sovrappeso a “rischio medio”, ovvero con uno o più fattori di rischio per DMG di natura etnico-demografica (es. età materna avanzata) e/o familiarità per DMT2, l’accelerazione della crescita fetale correlata all’iperglicemia materna inizia già alla ventesima settimana di gestazione, ma la finestra diagnostica per il riconoscimento del DMG individuata nelle classiche 24–28 settimane è ancora in grado di revertire efficacemente il fenomeno e prevenire la macrosomia fetale con un trattamento normoglicemizzante adeguato [25]. In questi casi, l’entità dell’iperglicemia indotta dalla gravidanza è minore rispetto a quanto osservabile nelle donne classificabili come a “rischio alto” per le linee guida ministeriali italiane (ad esempio per un’obesità pregravidica) e il trattamento farmacologico richiesto è meno intenso (la proporzione di gestanti che necessita di terapia insulinica per normalizzare i valori glicemici in aggiunta alle raccomandazioni nutrizionali e sull’attività fisica è, di fatto, significativamente inferiore) [25].

Questi risultati sono in linea con dati di letteratura molto recenti che suggeriscono come, nelle donne multipare che tendono ad affrontare la gravidanza con un indice BMI pregravidico elevato e a un’età materna maggiori rispetto alle primipare, è necessario che l’esercizio fisico di intensità moderata svolto per normalizzare i valori glicemici in presenza di DMG nelle diverse sessioni sia di durata maggiore (90 min \(vs\) 60 min) rispetto a quest’ultime, rendendolo di fatto poco sostenibile per la (nuovamente) futura mamma [24]. Se la prescrizione dell’esercizio fisico per il trattamento e la prevenzione del DMG sia da preferirsi nelle donne nullipare piuttosto che nelle donne multipare resta un punto ancora da chiarire [24].

Conclusioni

Quel che emerge da questa rassegna è che, all’aumentare del numero e della “severità” dei fattori di rischio di insorgenza di DMG, che riflettono anche la gravità dell’iperglicemia potenzialmente indotta dalla gravidanza e la possibilità di complicanze materno-fetali, si riduce la “finestra gestazionale” disponibile per interventi preventivi uni- o multimodali, sottolineando la necessità di estenderla anche al periodo preconcezionale e all’intervallo fra due gravidanze successive. Un coinvolgimento più lungo della donna all’interno di programmi di esercizio fisico dedicati offre, infatti, maggiori opportunità di consulenza e sessioni di attività da completare, con maggiori probabilità di riuscita dell’intervento per la prevenzione del DMG. Attualmente sono in fase di sviluppo e validazione nuovi modelli per la valutazione del rischio di DMG e delle complicanze materno-fetali, basati su parametri clinici o biochimici che fanno già parte della comune diagnostica [26]. Tali strumenti potranno trovare in futuro larga applicazione nella pratica clinica durante il counselling della gestante, per decidere il timing dell’intervento preventivo e/o dell’OGTT più appropriati [1]. È inoltre auspicabile che, nelle prossime ricerche, i programmi di esercizio fisico somministrati alla donna che desidera intraprendere o ha già intrapreso la gravidanza non siano rigidi, ma personalizzati sul fabbisogno della paziente stessa e sulle sue caratteristiche fisiologiche, con un feedback in tempo reale sugli effetti glicemici dell’intervento e, più in generale, sullo stato di salute, sfruttando la crescente disponibilità di wearable devices combinati a specifiche App per smartphone e smartwatch, che consentono un efficace automonitoraggio, l’integrazione con informazioni derivanti dalla dieta e dalle altre attività svolte nel corso della giornata, compreso il sonno [27] e finanche la comunicazione con lo specialista endocrinologo e l’operatore/educatore per le attività motorie preventive e adattate.