Sommario
Descritte per la prima volta negli anni’20 del Novecento, le diete chetogeniche sono passate da dietoterapia “di nicchia” per epilessie farmaco-resistenti o secondarie a rare malattie metaboliche (es. deficit di GLUT-1), a trattamento diffuso di patologie associate a malnutrizione per eccesso (diabete mellito di tipo 2, obesità). Attualmente non esiste una definizione univoca, ma si possono individuare tre classificazioni che combinano elementi differenti (composizione in macronutrienti, bilancio energetico, rapporto chetogenico) e risultano, pertanto, tra loro complementari. L’eterogeneità nella nomenclatura ha contribuito a generare false convinzioni sulla dieta chetogena, talvolta accostata a protocolli “low-carb” o “iperproteici”. Fare chiarezza non rappresenta quindi un mero esercizio accademico, ma un imperativo sia della ricerca sia della pratica clinica.
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Introduzione
Che cosa sia una dieta chetogena o chetogenica sembra intuitivo: potremmo definirla semplicemente un regime alimentare capace di indurre chetosi nutrizionale (chetonemia non superiore ai 7–8 mM), con lo scopo di rendere i corpi chetonici il principale substrato ossidativo del metabolismo energetico in luogo del glucosio per il cervello, ma anche per miocardio e muscolo scheletrico. In funzione delle riserve epatiche di glicogeno e dei carboidrati alimentari, anche in assenza di un bilancio energetico negativo, una prima fase di adattamento vede in primo piano glicogenolisi e gluconeogenesi (la prima prevalentemente epatica, la seconda anche muscolare) a coprire il fabbisogno dei tessuti glucosio-dipendenti. Successivamente, l’adattamento all’utilizzo di \(\beta \)-OH butirrato e aceto-acetato anche da parte dell’encefalo permette di continuare a mantenere un minimo apporto di carboidrati con la dieta. Glicemia e insulinemia si stabilizzano ai limiti inferiori di normalità, mentre il pH ematico non subisce variazioni significative. Se la differenza tra chetosi nutrizionale (fisiologica) e chetoacidosi (patologica) appare netta, più sfumato è il minimo comun denominatore a tutte le diete definite (talvolta impropriamente) “chetogeniche”. Tre sono i principali approcci in letteratura che, partendo da presupposti diversi, tentano di proporre una classificazione utile anche nella pratica clinica.
Protocolli di studi intervento
Per quanto il panorama di diete chetogeniche sia molto variegato, non esiste una univoca definizione di “dieta chetogena”. Partiamo da alcune definizioni utilizzate in studi di intervento e riportate di seguito (Tabella 1): si basano sulla (massima) quota di carboidrati accettabile per indurre chetosi nutrizionale (in termini assoluti o percentuali su un Energy Intake o EI di riferimento). Ciò, come vedremo successivamente, rappresenta una semplificazione ma è indubbia la praticità di questo tipo di classificazione.
Classificazione su restrizione calorica e quota lipidica
Proprio perché la restrizione glucidica non permette di caratterizzare tout court una dieta chetogenica, è stata suggerita più recentemente una classificazione che, fissata la massima quota di carboidrati (CHO), ad es. 30–50 g die, raggruppasse in macro-categorie i numerosi protocolli dietetici utilizzati in letteratura (Tabella 2). In effetti, una definizione più precisa si rende necessaria al fine di valutare correttamente l’efficacia di diversi protocolli chetogenici. Due le variabili aggiuntive rispetto alla suddivisione precedente: la presenza o meno di restrizione calorica e il contributo energetico dei lipidi.
Come si può notare, ad eccezione della very-low calorie ketogenic diet (VLCKD), per isocaloric ketogenic diet (ICKD) e low-calorie ketogenic diet (LCKD) non è possibile definire una soglia di kcal assegnate a priori; al contrario, bisogna prima calcolare il dispendio energetico giornaliero (Total Daily Energy Expenditure, TDEE) del singolo paziente e solo dopo determinare se il protocollo è ICKD (eucalorico) o LCKD (ipocalorico). Questo aspetto da un lato costituisce la base per una dietoterapia “cucita” sul fabbisogno energetico del paziente, dall’altro permette di distinguere a livello sperimentale l’effetto metabolico della restrizione calorica da quello attribuibile alla chetosi nutrizionale. È anche vero che gli stessi acronimi sono stati e vengono utilizzati con significati diversi: ad esempio LCKD e VLCKD diventano low-carb e very-low carb ketogenic diet (invece di low-calorie e very-low calorie ketogenic diet). Un’altra definizione molto utilizzata, quella di very-low calorie diet (VLCD, <800 kcal die) abbraccia uno spettro di dietoterapie che va dalle very-low fat alle very-low carb (VLCKD e VLCHFD), generando ulteriore confusione al quadro riportato sopra [7] (Box 1).
Rapporto chetogenico, lipidi e CHO
Esiste, quindi, la possibilità di classificare una dieta chetogenica sulla base del rapporto chetogenico (KR) desiderato e sulla qualità/quantità dei lipidi e dei carboidrati assegnati (Tabella 3). I due protocolli storici, nati per il trattamento delle epilessie farmaco-resistenti e refrattarie pediatriche sono:
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la classic ketogenic diet (CKD) messa a punto alla Mayo Clinic di Rochester dal neurologo Peterman negli anni’20 del Novecento (perfezionata poi dalla Johns Hopkins University di Baltimora, in particolare nella durata del digiuno durante la fase di induzione);
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la Medium-Chain Triglycerides Ketogenic Diet (MCT-KD) del 1971 ideato dal neurologo pediatra P.R. Huttenlocher; questo protocollo è stato a sua volta modificato a distanza di alcuni anni, con riduzione della quota di acidi grassi a catena media a favore di quelli a catena lunga, per ridurne gli effetti collaterali gastro-intestinali).
Dalla CKD sono originate poi varianti come la Modified Ketogenic Diet (MKD) più “permissive” in termini di apporto glucidico (e quindi con un KR più basso). Negli ultimi 20 anni ulteriori protocolli si sono affermati anche nella terapia di malattie metaboliche acquisite (es. diabete mellito 2, obesità): nel 2002 la neurologa E. Thiele con la dietista H. Pfeifer del Massachusetts General Hospital di Boston hanno ideato la low-glycemic index therapy (LGIT), che permette un introito di CHO ∼ 40–60 grammi die purché a basso indice glicemico. L’anno successivo il neurologo E. Kossoff della Johns Hopkins University ha introdotto una variante della dieta Atkins (Modified Atkins Diet, MAD) nella terapia delle epilessie infantili. Tale protocollo si caratterizza per un intake iniziale di CHO di 10–15 grammi die fino a un massimo di 20–30 grammi die nei mesi successivi; inoltre promuove, l’assunzione di cibi naturalmente ricchi di lipidi e con contenuto moderato di proteine (energy intake “ad libitum”). Infine, in anni ancora più recenti in UK si è affermata la MKD-UK (modified ketogenic diet \(UK\)), con apporto di CHO di circa 15–30 grammi die e nessuna restrizione calorica/proteica (similmente alla MAD), e quota lipidica in grammi (come la CKD).
Anche questa classificazione non è però esente da confusione: l’acronimo MKD (letteralmente “dieta chetogenica modificata”) in letteratura è stato utilizzato sia per indicare specifici protocolli (MKD-UK), ma è anche un termine generico o umbrella term che si riferisce a versioni “modificate” della CKD (come la MAD e la LGIT in USA) [10].
Cosa non è sinonimo di dieta chetogenica
Dieta “iperproteica”
L’intake proteico è generalmente moderato. Nella letteratura scientifica anglosassone, dove sono nati i principali protocolli chetogenici, il fabbisogno proteico è calcolato in termini di RDA o DRI (dietary reference intake) che sono sovrapponibili al PRI per la popolazione italiana (livelli di assunzione raccomandata, LARN 2014). Diverso il caso di soggetti affetti da neoplasie o di atleti agonisti sottoposti a dieta chetogenica, dove l’aumentato intake proteico può essere giustificato da uno stato di ipercatabolismo cellulare su base infiammatoria (nei primi) o dall’aumentata ossidazione proteica a scopo energetico durante l’esercizio fisico (nei secondi).
Dieta low-carb
Secondo l’American Diabetes Association, l’assunzione di <130 grammi carboidrati die o <26% (dal 10 al 25%) EI da carboidrati indica una dieta a basso contenuto di carboidrati [11]. In assenza di un limite “teorico” all’intake di proteine, tale protocollo non determina chetosi alimentare ma, a partire da amminoacidi glucogenici, potrebbe promuovere la sintesi indiretta (piruvato o intermedi del ciclo di Krebs quali \(\alpha \)-chetoglutarato, fumarato, succinil-CoA) e/o diretta di ossalacetato nei mitocondri epatocitari. La decarbossilazione a fosfoenolpiruvato segna la prima tappa della gluconeogenesi che, immettendo glucosio nel circolo periferico per mezzo dei trasportatori GLUT-2 (insulino-indipendenti), compete con la chetogenesi nel fornire substrati ossidativi ad encefalo e tessuti periferici dopo esaurimento del glicogeno epatico.
Dieta ipocalorica
La dieta chetogenica standard nasce come terapia dell’epilessia infantile, nel tentativo di riprodurre la chetonemia ottenuta con il digiuno prolungato, coprendo il fabbisogno stimato del paziente (1,5 × metabolismo basale) con l’intake alimentare [12]. È pur vero che si è osservata una riduzione spontanea dell’EI in protocolli “ad libitum” come la MAD: ciò dipende, in parte, dal noto potere saziante di lipidi e proteine (anche questi ad libitum) e, forse, anche dai corpi chetonici o dagli acidi grassi a catena media (MCFAs). Diversamente, la restrizione calorica anche marcata di alcuni protocolli utilizzati da alcuni anni nella terapia dell’obesità o del diabete mellito 2 (es. VLCKD) non è di per sé necessaria o sufficiente per instaurare sufficienti livelli di chetosi dietetica.
Criticità nelle attuali definizioni di dieta chetogenica
Combinazione eterogenea dei parametri considerati nella classificazione: quota glucidica, restrizione calorica, quota lipidica, rapporto chetogenico, ecc.
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1.
Interdipendenza tra %EI da grassi e %EI da carboidrati, a parità di proteine assegnate: all’aumentare di una, l’altra diminuisce e viceversa. Trattandosi di due variabili associate, sarebbe più corretto definire una quota di carboidrati in termini assoluti (n. grammi die o n. grammi per peso corporeo o FFM), invece che relativi (%EI) come talvolta accade [13].
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2.
Intake proteico variabile (ad libitum): la chetonemia raggiunta e i suoi (presunti) benefici (es. mantenimento o incremento della massa muscolare, aumento della sazietà) subiscono l’effetto di confondimento delle proteine, se si confrontano diete non-isoproteiche.
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3.
Rapporto chetogenico variabile nel tempo: tralasciando i casi di mancato raggiungimento del KR target, il contenuto di alcuni macronutrienti viene spesso modificato nella prosecuzione del protocollo dietetico. Ad esempio, nella MAD si passa da 10–15 a 20–30 grammi carboidrati nei mesi successivi al primo, nella MCT-KD si alza la quota di MCFAs dopo aver testato la tollerabilità gastrointestinale del paziente o nella VLCKD si passa a una fase di dieta ipoglucidica non chetogenica dopo le prime 8–12 settimane. Anche la comparsa di effetti collaterali o la recidiva di sintomi controllati durante dieta chetogenica (es. nuove crisi comiziali) può portare a un aggiustamento verso il basso o verso l’alto del KR.
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4.
Eterogeneità nella misurazione dei corpi chetonici: non esiste attualmente un consenso sulla scelta del corpo chetonico (beta-idrossibutirrato, acetoacetato), del liquido biologico (urine, sangue capillare, sangue venoso) o del timing della misurazione. In parte ciò è espressione dei diversi razionali scientifici che sottendono una dieta chetogena: se per alcune patologie (es. epilessie refrattarie) il mantenimento di un elevato KR è un obiettivo terapeutico primario, in altre (es. obesità) la fase chetogenica dura soltanto alcune settimane ed è secondaria rispetto al mantenimento di un deficit calorico stabilito. Talvolta questo conduce a misurare erroneamente solo in fase iniziale la chetonuria e/o chetonemia, “postulando” che questa si mantenga per tutto il tempo previsto.
Prospettive future
Con questa breve rassegna si è provato a delineare lo stato dell’arte nella classificazione delle diete chetogeniche e i suoi limiti attuali; stabilire criteri omogenei e scientificamente validi è la condizione necessaria per raggiungere una definizione “universale”. L’obiettivo non è solo quello di migliorare la qualità degli studi e del loro confronto (revisioni sistematiche, meta-analisi), ma anche permettere di chiarire quali siano effettivamente gli attori biologici (corpi chetonici, MCT, microbiota, ormoni, bilancio energetico) coinvolti nell’efficacia di una dieta chetogena.
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Funding
Open access funding provided by Università degli Studi di Roma La Sapienza within the CRUI-CARE Agreement.
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Gli autori Francesco Frigerio, Eleonora Poggiogalle e Lorenzo M. Donini dichiarano di non aver conflitti di interesse.
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Lo studio presentato in questo articolo non ha richiesto sperimentazione umana.
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Gli autori di questo articolo non hanno eseguito studi sugli animali.
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Proposto da L.M. Donini.
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Frigerio, F., Poggiogalle, E. & Donini, L.M. Definizione di dieta chetogena: creatività o confusione?. L'Endocrinologo 23, 587–591 (2022). https://doi.org/10.1007/s40619-022-01178-2
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