Introduzione

Acromegalia e gigantismo sono condizioni morbose note fin dall’antichità [1, 2]. La prima descrizione clinico-scientifica dell’acromegalia si deve al neurologo e psichiatra francese Pierre Marie (1853–1940), allievo, collaboratore e successore del grande Jean-Martin Charcot (1825–1893) alla Salpêtrière di Parigi, che nel 1886 pubblica un articolo in cui conia il nome della malattia ricorrendo a termini greci, ácron, citato dallo stesso Marie, e megalía da mégas, che significano rispettivamente “estremità” e “grandezza” [3]. Negli anni successivi, le ricerche su questa malattia e sulla sua eziopatogenesi si intensificano. Nel 1921, una svolta con la scoperta dell’ormone della crescita (GH) da parte del medico statunitense Herbert M. Evans (1882–1971).

La storia dell’acromegalia è stata ricostruita da Wouter de Herder in due importanti articoli, pubblicati l’uno nel 2009 e l’altro nel 2016 [4, 5]. Si intende qui ritornare su questa malattia prima e immediatamente dopo Pierre Marie, in particolare sulla descrizione di un gigante acromegalico di Amato Lusitano (1511–1568) e sui contributi alla patogenesi dell’acromegalia di Augusto Tamburini (1848–1919), quando era direttore del manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia, due personaggi molto diversi e lontani nel tempo, ma entrambi legati ad Ancona.

Pierre Marie e i suoi predecessori

Nella Revue de Médecine del 1886, il neurologo e psichiatra francese Pierre Marie, noto anche per le sue ricerche sulla spondilite anchilosante, afasia, sclerosi multipla e artrite reumatoide, pubblica un articolo su due casi di acromegalia che aveva avuto la possibilità di osservare alla Salpêtrière di Parigi [3]. Si tratta di due donne diverse per età e condizioni di salute, ma con sintomi simili: la prima, Fusch, di 37 anni, si ricovera in ospedale per forti dolori alla testa, vi rimane poche settimane e poi esce su sua richiesta; la seconda, Héron, di 54 anni, è invece in ospedale da oltre sedici anni, ormai allettata, cieca e gravemente deperita, tanto che muore l’anno dopo, nell’estate 1987. Dalla descrizione dettagliata delle due pazienti, Marie deduce che entrambe sono affette da una stessa malattia fino ad allora trascurata; inoltre, associa al rapporto sulle due donne la segnalazione di altri cinque casi, riportati in letteratura dall’inizio dell’Ottocento, su cui in seguito torna, individuando anche segni e sintomi differenziali rispetto ad altre tre malattie che potrebbero confondersi con questa: il mixedema o ipotiroidismo grave, la leontiasi ossea di Virchow e l’osteite deformante o morbo di Paget.

Sebbene Marie rilevi numerosi sintomi comuni alle due pazienti, tra cui amenorrea all’esordio della malattia, curvatura del rachide, nevralgie, polidipsia e poliuria, in modo tanto conciso quanto efficace conclude che la malattia che propone di chiamare acromegalia è caratterizzata da ipertrofia di piedi, mani e viso (p. 333): “Il existe une affection caractérisée surtout par une hypertrophie des pieds, des mains et du visage, que nous proposons d’appeler acromégalie, c’est-à-dire hypertrophie des extrémités.” Subito dopo aggiunge che le estremità non sono le uniche parti del corpo ad essere colpite in questa malattia, ma la loro ipertrofia è il fenomeno iniziale e più caratteristico.

In precedenza erano stati già descritti pazienti acromegalici come esempi singolari, soprattutto nell’ambito della teratologia, per i quali si era parlato di prosopectasia, “dilatazione del volto”, o di macrosomia, “corporatura di misure superiori alla norma”; es.: una donna ricoverata per sei anni all’ospedale Maggiore di Milano da Andrea Verga (1811–1895) nel 1864 [6]; un contadino della provincia di Pavia di 37 anni da Cesare Lombroso (1835–1909) nel 1868 [7]; il cosiddetto bottaro, morto nel 1808 a 47 anni, di cui oggi è esposta la cera al museo Cattaneo di Bologna, da Cesare Taruffi (1821–1902) nel 1879 [8].

Wouter de Herder elenca venti casi di acromegalia e gigantismo precedenti a Marie, segnalati tra la fine del Settecento e nell’Ottocento, mentre il primo sarebbe quello esposto dal medico olandese Johann Wier (1515–1588) nel 1567 [9]: una donna che esibiva le sue dimensioni gigantesche, viaggiando da una città all’altra, in cambio di un’offerta con cui manteneva se stessa e la madre che l’accompagnava.

La letteratura dei casi clinici, delle observationes o curationes, che prende avvio nella metà del Cinquecento e si sviluppa nei secoli successivi per essere dominante nell’Ottocento e segnare il decollo della medicina moderna [10], potrebbe restituire altre descrizioni di acromegalici. Una, di poco precedente a quella di Wier, è contenuta nelle Curationes di Amato Lusitano (1500–1568), il grande clinico del Cinquecento considerato fondatore di questo nuovo genere [11, 12].

Amato Lusitano

Nato a Castelo Branco, in Portogallo, da una famiglia di ebrei costretti alla conversione, Amato Lusitano (Fig. 1a) studia a Salamanca dove si laurea in medicina nel 1530, quindi pratica la professione a Lisbona per qualche tempo, ma presto è costretto a lasciare il suo paese per sfuggire alle persecuzioni religiose e soggiorna in numerose città, lontane tra loro, tutte tappe della diaspora sefardita: Anversa, Ferrara, Venezia, Ancona, Roma, Pesaro, Ragusa, infine Salonicco, dove si ferma godendo del clima di tolleranza garantito dall’impero ottomano.

Fig. 1
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\(\mathbf{a}\) Incisione raffigurante Amato Lusitano (https://letteredallafacolta.univpm.it/cosmopolitismo-e-tolleranza-in-amato-lusitano-medico-portoghese-ad-ancona-1547-1555/, ultimo accesso 7 febbraio 2022); \(\mathbf{b}\) frontespizio dell’opera Curationum medicinaliumcenturiae duae, quinta videlicet et sexta, Venezia 1560

Nelle Curationes (Fig. 1b), raccolte in sette Centurie e pubblicate tra il 1551 e il 1566, Amato racconta la storia di pazienti da lui curati o osservati, seguendo un ordine cronologico, ma senza troppa rigidità. La loro stesura inizia a Ferrara, il 4 settembre 1546, alla vigilia dello Yom Kippur, la festa ebraica dell’espiazione, circa otto mesi prima della sua partenza per Ancona, nel maggio 1547, dove si erano già insediati il fratello Joseph e altri membri della famiglia, impegnati in fiorenti commerci con i favori papali. Ad Ancona, Amato vive otto anni, fino all’agosto 1555, quando è costretto a scappare per evitare le persecuzioni contro gli ebrei conversi volute dal nuovo papa, Paolo IV, l’uomo dell’Inquisizione, nella sua battaglia contro l’apostasia, che si concludono con venticinque roghi accesi in città tra l’aprile e il giugno 1556. Trova riparo per alcuni mesi a Pesaro, insieme con altri correligionari, sotto la protezione del duca Guidobaldo II della Rovere, prima di trasferirsi a Ragusa, sull’altra sponda dell’Adriatico.

Le Curationes delle prime cinque Centurie, fino alla Curatio V 68, riguardano per la maggior parte pazienti di Ancona o curati ad Ancona, rappresentando uno straordinario documento della vita della città del tempo, oltre che della sua epidemiologia. Le prime, invece, ripercorrono gli anni precedenti dell’attività di Amato e si collocano in Portogallo, ad Anversa e a Ferrara (I 1–forse 34), mentre trenta, tra la seconda e la terza Centuria (II 82-III 13), a Roma, dove Amato si era recato nell’autunno del 1550 per curare il papa Giulio III rimanendovi fino al giugno 1551 e occupandosi anche di altri pazienti. Le ultime Curationes della quinta Centuria sono successive ad Ancona e riguardano pazienti di Pesaro; infine, quelle della sesta e settima Centuria pazienti di Ragusa e Salonicco.

Tra le Curationes di Pesaro, pubblicate nel 1560, c’è quella del gigante di Senigallia (V 95): “un uomo di ingente grandezza, tanto che lo chiamano gigante e a ragione, perché superava la statura media di un cubito” [13]. Subito dopo Amato segnala la grandezza delle mani, dei piedi e delle mascelle: i denti, seppure completi e grandi, sono “radi o separati”. La sua forza è pari alle dimensioni: era capace di sollevare e trasportare ingenti pesi sulle spalle senza affaticarsi. Tuttavia, all’età di vent’anni si ammala a Senigallia, dove era nato. Quando il duca Guidobaldo II lo incontra in questa città, vuole che sia portato a Pesaro perché lì potesse avere tutto quello di cui necessitava e, soprattutto, fosse curato da ottimi medici per le sue ulcere ai piedi. Amato coglie l’occasione per lodare il duca che aveva accolto lui e la sua comunità di ebrei conversi in fuga, e che ora aveva mostrato “pietà, misericordia e somma virtù peripatetica” nei confronti di un uomo tanto grande e forte, quanto fragile. Segnala, infine, i nomi di quelli che lo avevano in cura: il medico “dotto” Marco e il chirurgo ebreo portoghese Abramo Aloya, altrimenti ignoti. Confessa di non conoscere l’esito della terapia, se lo avesse portato alla guarigione, perché a breve si era allontanato da Pesaro. Dunque, precisione clinica e comprensione umana in questo racconto di Amato.

Patogenesi dell’acromegalia

Nell’articolo sull’acromegalia pubblicato nel 1886 [3], Pierre Marie si mostra molto sicuro sulla specificità di questa malattia e altrettanto cauto sulla sua eziologia, per la quale ammette che non ci sono dati certi (p. 313): “nous n’avons aucune donnée bien précise.” Propone tre ipotesi – una malattia sistemica di tipo reumatico, neurologica dipendente dal simpatico, o dello sviluppo – per concludere ribadendo che non c’è niente di certo sulla sua natura (p. 333): “nous n’avons encore aucune donnée certaine sur la nature de cette maladie.”

In questo articolo Marie non coinvolge in nessun modo l’ipofisi, né lo avevano fatto quelli che si erano occupati dell’acromegalia prima di lui chiamandola in altro modo, compreso Andrea Verga [6], forse il primo a segnalare la presenza di un tumore ipofisario, all’interno della sella turcica, di una donna acromegalica morta nel 1862, che lui stesso aveva visitato in ospedale due anni prima, nel 1860 (p. 114). Infatti, per spiegare la “singolare” malattia, Verga era piuttosto ricorso agli umori ippocratici, alle “idee dell’antica patologia umorale”, scrivendo (p. 116): soppresse le mestruazioni, “gli umori si gettarono altrove, e prima fecero impeto verso la cute, poi si diressero a nutrire e sviluppare l’intero organismo.” Un’altra prova, questa, della lunga fortuna della teoria ippocratica, quando ormai era stata da tempo confutata.

Ma presto, negli anni successivi, si osserva che nelle dissezioni degli acromegalici l’ipofisi è costantemente alterata e la sella turcica dilatata. Quindi, la dipendenza dell’acromegalia dall’ipofisi è sostenuta da medici e scienziati di tutta Europa, tra cui Oskar Minkowski (1858–1931), Carl Benda (1857–1932), Roberto Massalongo (1856–1919), e lo stesso Marie che approfondisce le ricerche con i suoi collaboratori disponendo del corpo di Héron, la paziente acromegalica da lui descritta nel 1886 e morta nel 1887 [1420]. L’ipofisi, tuttavia, è ancora poco esplorata, non se ne conoscono la natura e la funzione, e si discute se nell’acromegalia ci sia un’ipertrofia dell’ipofisi o un tumore, oppure un’iperfunzione dell’ipofisi o un’ipofunzione. In questo dibattito interviene in modo autorevole Augusto Tamburini (1848–1919) pubblicando nel 1894 un articolo sulla patogenesi dell’acromegalia in tedesco, in una versione breve [21], e in italiano, con maggiori dettagli, nella Rivista sperimentale di freniatria da lui diretta [22, 23].

Augusto Tamburini

Nato ad Ancona da una famiglia modesta nel 1848, Tamburini era riuscito a studiare con l’aiuto del fratello maggiore Luigi e a laurearsi a Bologna in medicina nel 1871. Inizia la sua attività professionale ad Ancona, nell’ospedale civico San Francesco alle Scale, che comprendeva il manicomio, ma presto si traferisce a Reggio Emilia, nel manicomio San Lazzaro, diretto dal 1873 da Carlo Livi (1823–1877), uno dei padri della psichiatria italiana. La morte prematura di Livi nel 1877 porta Tamburini giovanissimo, neppure trentenne, alla direzione del manicomio di Reggio Emilia e alla docenza di psichiatria nell’università di Modena. Sebbene gli siano offerte posizioni di prestigio altrove, Tamburini rimane al manicomio di Reggio Emilia quasi senza interruzioni per oltre trent’anni, promuovendolo in Italia come esempio di eccellenza sia per l’assistenza e la cura dei pazienti sia per la ricerca, e inserendolo tra i grandi centri di tutta Europa: Parigi, Monaco, Vienna e Berlino. Soltanto nel 1905 Tamburini lascia Reggio Emilia per Roma, dove va a ricoprire la cattedra di psichiatria che era stata di Ezio Sciamanna (1850–1905) e fonda la clinica delle malattie nervose e mentali del Policlinico, ricoprendo incarichi molteplici come membro del Consiglio superiore di sanità [24, 25].

L’articolo di Tamburini sull’acromegalia inizia con la presentazione di un caso, quello di Elena Poppi affetta da questa malattia: ricoverata nel manicomio di Reggio Emilia a 38 anni nel 1892, Elena muore un anno dopo, nel 1893 [22, 23]. Tamburini descrive in dettaglio le caratteristiche e i sintomi della paziente rilevati nell’esame clinico; poi le osservazioni fatte sul tavolo settorio; infine, i risultati dell’esame istologico eseguito in laboratorio. Sulla base di questo e degli altri casi segnalati in letteratura, in tutto ventiquattro, che passa in rassegna, Tamburini conclude che l’acromegalia è connessa a una lesione dell’ipofisi, schierandosi per quella che definisce la “teoria di Marie” (p. 36). Ritiene inoltre, come Massalongo, che l’acromegalia e il gigantismo dipendano allo stesso modo da un’iperfunzione dell’ipofisi. Ma diversamente da Massalongo che ne vedeva la causa nell’ipertrofia dell’ipofisi, Tamburini sostiene invece, come nel caso da lui osservato (Fig. 2b), che si tratti di un tumore dell’ipofisi, in prevalenza un adenoma con iperfunzione dell’organo, in accordo con gli studi di Giulio Vassale che avevano dimostrato l’importanza vitale dell’ipofisi e delle sue secrezioni.

Fig. 2
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\(\mathbf{a}\) Ritratto fotografico di Augusto Tamburini (1848–1919); \(\mathbf{b}\) paziente acromegaliga di 38 anni descritto da Tamburini

In ogni caso esclude che ci sia un’ipofunzione dell’ipofisi in queste malattie, come proponeva Marie, almeno in tutta la prima fase dell’accrescimento osseo, mentre potrebbe verificarsi alla fine, quando nel paziente subentra la cachessia che porta alla morte. Tamburini ammette che si sa ancora poco dell’ipofisi e della sua funzione, ma scrive che “l’ipofisi ha una funzione assai importante nell’organismo e che probabilmente è destinata a elaborare uno speciale prodotto di secrezione interna necessario all’economia dell’animale” (p. 37). Per questa affermazione trova sostegno nei risultati delle ricerche fatte nel laboratorio del suo manicomio di Reggio Emilia, diretto dal patologo Giulio Vassale (1862–1913), e pubblicate da Vassale stesso e dal chirurgo Ercole Sacchi nella Rivista sperimentale di freniatria del 1892 e 1894 [26, 27].

Attraverso la distruzione dell’ipofisi in animali da esperimento, in tutto quaranta tra cani e gatti, si era potuto dimostrare che l’ipofisi ha una funzione vitale per l’organismo, perché gli animali senza ipofisi giungono rapidamente alla morte. Vassale e Sacchi avevano messo a punto un nuovo metodo per arrivare all’ipofisi tramite la volta palatale, senza ledere la base del cervello, e distruggerla con la cauterizzazione elettrica e chimica. Questo metodo, definito da Tamburini “elegante” (p. 37), è rapidamente adottato ovunque per studi di ipofisectomia. Nel manicomio di Reggio Emilia, dunque, esperienza clinica di Tamburini e ricerca di laboratorio di Vassale collaborano virtuosamente.

Tamburini è una figura di spicco della psichiatria e della neurologia tra Ottocento e Novecento, famoso per i contributi sulle localizzazioni delle funzioni cerebrali, sulle allucinazioni, anche sull’acromegalia, per le perizie legali, per le competenze nell’organizzazione manicomiale e per le iniziative nell’ambito della medicina sociale. Mantiene un rapporto stretto con Ancona e, in particolare, con il manicomio: fa parte della commissione scientifica per la costruzione del nuovo manicomio di piano San Lazzaro, inaugurato nel 1901 e diretto fino al 1913 da Gaetano Riva (1845–1931), che era stato per dodici anni suo collega a Reggio Emilia, ed è influente nella selezione del personale [28].

Al manicomio di Ancona arriva nel 1902, come medico settore, Gustavo Modena (1876–1958) (Fig. 3a), che era stato suo allievo a Modena e a Reggio Emilia, e che subentra a Riva nella direzione del manicomio nel 1913, finché ne viene allontanato nel 1939 in seguito alle leggi razziali [29]. Inoltre, nello stesso manicomio lavorano prima il nipote Aroldo (1867–1907), figlio del fratello Luigi che muore a quarant’anni per complicanze cardiache, in seguito a un’influenza; poi il figlio Arrigo (1878–1943), che muore sotto i bombardamenti con altri medici, infermieri e numerosi pazienti. A sancire il legame con Ancona che non si perde nel tempo, alla morte di Augusto Tamburini nel 1920, la vedova Emilia Trebbi dona al manicomio la biblioteca privata del marito, Fig. 3b), una preziosa collezione costituita da 3.000 volumi [30].

Fig. 3
figure 3

\(\mathbf{a}\) Istantanea di Gustavo Modena (1876–1958) alla scrivania; \(\mathbf{b}\) le due sale della Biblioteca intitolata ad Augusto Tamburini nel Manicomio di Ancona

L’apertura del nuovo manicomio di Ancona rappresenta una svolta nella cura e nell’assistenza dei pazienti con il teatro, i molteplici laboratori e, soprattutto, la colonia agricola a disposizione in cui praticare l’ergoterapia, come pure nella ricerca affidata al giovane Modena che, dopo la laurea, aveva fatto un’esperienza significativa a Vienna, mantenendo contatti con Tamburini e seguendone gli interessi. Nel 1903 Modena pubblica tre articoli, tutti sull’acromegalia, di cui due sono segnalazioni di casi clinici: l’uno nella Rivista sperimentale di freniatria, su una donna di 65 anni affetta da acromegalia, ma ancora molto attiva negli impegni domestici [31]; l’altro nel primo numero dell’Annuario del manicomio di Ancona, appena fondato, su un uomo di 38 anni, sempre di Ancona, che muore per acromegalia e mixedema. Di lui si riportano l’esame clinico, la parziale autopsia che rivela un adenoma ipofisario, e il successivo esame istologico [32]. Il terzo articolo di Modena esce ancora nella Rivista sperimentale di freniatria; è una rassegna di studi sull’acromegalia che si basa su ottanta casi e che conferma le conclusioni di Tamburini: la malattia dipende da un adenoma dell’ipofisi, con iperfunzione dell’organo [33].

Le ricerche sull’acromegalia continuano nel manicomio di Ancona. Arrigo Tamburini, il figlio di Augusto, pubblica un’altra rassegna di studi recenti sulla malattia nella Rivista sperimentale di freniatria del 1911 [34]. Questa e le altre pubblicazioni qui citate si trovano in gran parte nel fondo Tamburini della biblioteca del manicomio, acquisita dall’Università Politecnica delle Marche nel 2018, e per alcune non ci sono copie altrove, almeno in Italia.

Conclusioni

Ancona è diventata sede universitaria in tempi recenti, soltanto un cinquantennio fa, ma le sue strutture sanitarie, il manicomio e l’ospedale, avevano un rilievo regionale o interregionale già nella prima metà del Novecento [29]. Medici originari di Ancona, come Augusto Tamburini, sebbene abbiano costruito altrove la loro carriera, hanno comunque contribuito allo sviluppo della città e delle sue istituzioni, e la biblioteca dell’ex-manicomio a lui intitolata costituisce uno strumento prezioso per lo studio della psichiatria, della neurologia e, più in generale, della medicina tra fine Ottocento e primo Novecento, compresa l’acromegalia. Ancona, inoltre, da sempre città di mare, centro di commerci e scambi con l’Oriente e il Mediterraneo, ha ospitato seppure per breve tempo, a metà del Cinquecento, uno straordinario medico itinerante, l’ebreo portoghese Amato Lusitano, la cui opera conserva memorie altrimenti perdute della città e del suo territorio, tra cui la storia del gigante di Senigallia.