Introduzione

Il diabete mellito di tipo 1 (DM1) è una malattia cronica autoimmune caratterizzata dalla distruzione selettiva delle \(\beta \) cellule pancreatiche per opera del sistema immunitario (in particolare da parte dei linfociti T citotossici autoreattivi CD8+), con conseguente deficit insulinico [1]. Tale patologia riconosce un’eziopatogenesi multifattoriale: fattori ambientali, non ancora del tutto noti, favoriscono l’instaurarsi della risposta autoimmune contro le \(\beta \)-cellule in soggetti geneticamente predisposti promuovendo l’esordio clinico della malattia, preceduto da una fase preclinica, di durata variabile, caratterizzata dalla comparsa di autoanticorpi non patogeni diretti contro antigeni \(\beta \)-cellulari. Tra i fattori ambientali che potrebbero rappresentare potenziali fattori scatenanti il DM1, la cui incidenza è aumentata negli ultimi decenni [2], sono stati proposti fattori dietetici, tossine, infezioni virali (in particolare da enterovirus), stress, microbioma intestinale [3, 4]. Negli ultimi anni, infine, sempre maggiore interesse è rivolto al coinvolgimento del sistema dell’immunità innata e della flogosi aspecifica nella patogenesi del DM1. Sta infatti emergendo un quadro in cui le \(\beta \)-cellule stesse, i sistemi dell’immunità innata e adattativa sono impegnati in una “conversazione intrinseca” che determina il destino finale delle \(\beta \)-cellule con la partecipazione “attiva” delle cellule immunitarie innate (come neutrofili, mastociti) e delle molecole infiammatorie [5].

Come è ben noto, il trattamento di questa malattia prevede la somministrazione di insulina esogena per tutta la vita, con la necessità di mantenere un buon controllo glico-metabolico per impedire la comparsa e lo sviluppo delle complicanze croniche, così come il manifestarsi delle complicanze acute quali l’ipoglicemia grave e la chetoacidosi. L’insulina, inoltre, non rappresenta una vera e propria “cura”; per tale motivo, lo sviluppo di strategie preventive rappresenta già da alcuni decenni un argomento di grande interesse per la comunità scientifica.

Strategie di prevenzione nelle diverse fasi di malattia

Tenendo in considerazione la storia naturale della malattia, possiamo distinguere tre livelli di prevenzione (Fig. 1): una prevenzione primaria destinata a soggetti ad alto rischio di sviluppare il DM1, finalizzata quindi a prevenire lo sviluppo del processo autoimmune; una prevenzione secondaria rivolta a soggetti con autoanticorpi positivi e normale tolleranza glucidica (o quanto meno assenza di diabete “conclamato”) nell’intento di arrestare il processo autoimmunitario e impedire l’esordio clinico del diabete; una prevenzione terziaria, infine, indirizzata a soggetti con malattia clinicamente manifesta, allo scopo di preservare la massa \(\beta \)-cellulare residua e ridurre il rischio di sviluppo delle complicanze croniche.

Fig. 1
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Strategie di prevenzione nel diabete mellito di tipo 1

I risultati sono tutt’altro che semplici da raggiungere, in quanto i meccanismi eziopatogenetici alla base del DM1, come abbiamo visto, sono complessi e non ancora del tutto noti; concorrono infatti sia fattori genetici che ambientali, così come il sistema dell’immunità acquisita e di quella innata. Il contributo di innumerevoli variabili rende il DM1 una patologia estremamente eterogenea, tanto che sulla base di studi istologici su campioni autoptici di pancreas si è ipotizzata la presenza di diversi “endotipi” in base all’età di insorgenza della malattia, i quali potrebbero sottintendere differenti meccanismi patogenetici alla base dello sviluppo del DM1 [6]. Sappiamo, inoltre, che la perdita della massa \(\beta \)-cellulare nei pazienti con DM1 è estremamente variabile e, di conseguenza, non facilmente prevedibile; infatti, la secrezione endogena di insulina può persistere anche dopo molti anni dalla diagnosi, compatibilmente con la presenza di \(\beta \)-cellule ancora funzionanti [7]. Inoltre l’insulite, ovvero l’infiltrato infiammatorio costituito da cellule del sistema immunitario che rappresenta il segno istologico patognomonico del DM1, sebbene ben caratterizzato, con un andamento progressivo e suddivisibile in pseudostadi è un processo anch’esso eterogeneo (persino da una zona all’altra del pancreas di uno stesso soggetto) [8]. Si aggiunge poi come ulteriore frammento di questo complicato puzzle la progressiva scoperta di neoantigeni potenzialmente coinvolti nella malattia (che potrebbero contribuire a innescare il processo autoimmune responsabile della distruzione \(\beta \)-cellulare) [9]. L’infiammazione e lo stress \(\beta \)-cellulare potrebbero infatti indurre alla formazione di neopeptidi, originatisi in seguito a modificazioni post-trascrizionali come ad esempio ossidazione, citrullinazione, deaminazione, fosforilazione, fusione peptidica. Si aggiunge, infine, la difficoltà nello studiare il pancreas, organo difficilmente “accessibile”; a tal proposito, tuttavia, un contributo fondamentale per la comprensione dei meccanismi che stanno alla base del DM1 è sicuramente la disponibilità di biobanche a livello internazionale (es. Network for Pancreatic Organ Donors, nPOD, European Network for Pancreatic Organ Donors, EUnPOD, Human Pancreas Analysis Program, HPAP, Exeter Archival Diabetes Biobank, EADB), con accesso a ricercatori impegnati nel settore, al fine di caratterizzare gli eventi molecolari che si verificano nelle diverse fasi della malattia [8].

Fra i molteplici approcci terapeutici sviluppati per impedire, ritardare o arrestare la distruzione \(\beta \)-cellulare che caratterizza il DM1, l’immunoterapia, in particolare, è stata ed è tutt’oggi oggetto di innumerevoli ricerche, con lo scopo di “modulare” il sistema immunitario.

Prevenzione primaria del diabete di tipo 1

Tenendo in considerazione che all’esordio clinico della malattia il 70–80% delle \(\beta \)-cellule potrebbe essere già andato distrutto, è facile intuire come un intervento preventivo, mirato alla preservazione della massa \(\beta \)-cellulare, esplichi la massima efficacia in soggetti che non abbiano ancora sviluppato l’autoimmunità e le alterazioni del metabolismo glucidico. Tuttavia, come è ben noto, non tutti i soggetti predisposti svilupperanno la malattia clinicamente manifesta e la loro identificazione è resa difficoltosa dalla mancanza di validi biomarcatori. Attualmente, infatti, non disponiamo di solidi biomarcatori che riflettano la massa e la funzione \(\beta \)-cellulare, così come l’andamento del processo immunitario nei confronti delle \(\beta \)-cellule o che documentino in maniera accurata il dialogo fra il sistema immunitario e la \(\beta \)-cellula [10]. La maggior parte degli studi di intervento con farmaci immunomodulanti è stata condotta finora su pazienti neodiagnosticati o con positività autoanticorpale, ovvero soggetti con una riserva \(\beta \)-cellulare potenzialmente già molto ridotta, esito di un processo autoimmune iniziato molto tempo prima [11]. Per tale motivo, i trials di intervento con farmaci immunomodulanti, possiamo anticipare, non hanno ottenuto degli effetti significativi a lungo termine sul controllo glicemico, anche se, indubbiamente, hanno permesso di evidenziare che è possibile, almeno temporaneamente, modificare il decorso della malattia.

In prevenzione primaria i dati sull’efficacia dell’immunoterapia sono ad oggi limitati, in parte anche per la significativa eterogeneità dei trials clinici finora condotti, in termini di disegno dello studio, di popolazione arruolata e di endpoints, che rende difficile l’interpretazione dei risultati ottenuti.

Moderato ottimismo hanno suscitato i risultati dello studio pilota PrePoint, condotto su 25 bambini di età compresa tra 2 e 7 anni, con storia familiare di DM1 e genotipo ad alto rischio ma con autoanticorpi negativi, ai quali è stata somministrata insulina per via orale, a diverse posologie, o placebo; la somministrazione orale di alte dosi di insulina (67,5 mg) si è dimostrata in grado di innescare la proliferazione delle cellule T, in assenza di episodi ipoglicemici [12]. Sulla base di questi dati incoraggianti, è stato quindi intrapreso lo studio di fase 2 POINT, randomizzato, controllato con placebo, in doppio cieco, il cui obiettivo è stato quello di determinare se l’esposizione antigenica protratta attraverso somministrazione giornaliera di insulina orale, potesse indurre tolleranza immunologica e impedire lo sviluppo di autoanticorpi in neonati di 4–7 mesi con score di rischio genetico per DM1 >10% (studio NCT03364868).

Al di là dell’approccio farmacologico, alcuni studi hanno indagato il ruolo dei fattori ambientali, ai quali siamo esposti fin dall’infanzia, nell’innescare l’autoimmunità contro antigeni insulari in bambini ad alto rischio genetico, sebbene spesso siano giunti a risultati non concordi. In questo contesto, lo studio osservazionale The Environmental Determinants of Diabetes in the Young (TEDDY), che ha arruolato bambini fino a 4 mesi di età con HLA ad alto rischio e/o parenti affetti da DM1, seguiti fino all’età di 15 anni, ha valutato una serie di triggers ambientali potenzialmente coinvolti nello sviluppo di autoimmunità. I dati raccolti hanno permesso di dimostrare che, ad esempio, l’esposizione precoce a probiotici diminuirebbe il rischio di autoimmunità, mentre l’uso di formule a base di latte vaccino idrolizzato o l’introduzione tardiva di glutine (dopo i 9 mesi di età), aumenterebbero il rischio di autoimmunità [13]; tuttavia, il dato non è stato supportato da altri studi che sembrano invece ottenere risultati opposti. Inoltre, alcuni dati suggeriscono che il rischio di DM1 sia fortemente ridotto nei soggetti con sufficienti livelli di vitamina D [13], probabilmente per il suo ruolo antiinfiammatorio, indicando un possibile beneficio di una supplementazione nell’infanzia, anche se diverse casistiche non hanno confermato l’effetto protettivo di tale approccio. Alcuni dati sembrano infine indicare un possibile beneficio dell’intervento dietetico con omega 3, che promuovono la differenziazione delle cellule T helper e T regolatorie, riducono i livelli di citochine proinfiammatorie e, dunque, potrebbero ridurre l’incidenza di DM1. Nello studio DAISY, condotto su un’ampia coorte di bambini ad alto rischio di DM1, definito dalla presenza di genotipo HLA ad alto rischio o dall’avere parenti di primo grado affetti da DM1, l’assunzione di acidi grassi polinsaturi (PUFAs) è risultata inversamente correlata con il rischio di sviluppare autoimmunità, con un effetto più evidente nei partecipanti che al follow-up risultavano positivi per 2 o più autoanticorpi [14].

Prevenzione secondaria del diabete di tipo 1

Tra gli approcci di prevenzione secondaria, atti a contrastare il declino della funzione \(\beta \)-cellulare in soggetti con autoimmunità ma in assenza di diabete manifesto, diversi studi hanno valutato l’utilizzo di anticorpi monoclonali, con risultati variabili. Un singolo ciclo di 14 giorni di infusione endovenosa di teplizumab, un anticorpo monoclonale anti-CD3, ha ritardato di circa 2 anni l’esordio clinico di DM1 in familiari di pazienti affetti, con positività per almeno 2 autoanticorpi \(\beta \)-cellulo specifici e alterazioni glicemiche all’OGTT. Inoltre, la percentuale di soggetti con sviluppo di DM1 è risultata significativamente inferiore nei pazienti trattati con teplizumab rispetto al placebo (43 vs 72%) [15]. Il trattamento è stato ben tollerato; rash e linfopenia transitoria sono stati gli effetti avversi più comuni del farmaco. Analisi di sottogruppi stratificati in base a specifiche caratteristiche hanno dimostrato che la presenza di HLA-DR4 e l’assenza di HLA-DR3 e di anticorpi anti-ZnT8 sembravano associati a una maggiore probabilità di risposta al trattamento [15]. È in corso di valutazione l’efficacia di Abatacept (modulatore della via di segnale CTLA4) nel ritardare l’esordio clinico di malattia in parenti di soggetti con DM1, con almeno 2 anticorpi positivi e normale tolleranza glucidica, di età compresa tra 6 e 45 anni; si tratta di uno studio multicentrico, randomizzato controllato con placebo, in cui i partecipanti vengono assegnati a ricevere 14 infusioni endovenose di Abatacept nell’arco di un anno oppure placebo, per valutare sicurezza ed efficacia nel prevenire la comparsa di alterazioni della tolleranza glucidica o diabete clinicamente manifesto (studio NCT01773707).

Altri trials hanno indagato l’efficacia di un approccio basato sulla somministrazione protratta di basse dosi di insulina (sottocute, orale o intranasale), in soggetti ad alto rischio di DM1, per stabilire se la somministrazione di antigeni possa indurre tolleranza immunologica ed impedire lo sviluppo di autoanticorpi \(\beta \)-cellulo specifici, senza tuttavia documentare un significativo beneficio in termini di prevenzione [16]. Lo studio Diabetes Prevention Trial-Type 1 (DPT-1), ad esempio, ha indagato l’effetto della somministrazione sottocutanea e orale di insulina in soggetti non diabetici, di età compresa tra 1 e 45 anni, e parenti di primo o secondo grado di pazienti con DM1. Lo studio comprendeva due gruppi di intervento, che ricevevano rispettivamente insulina sottocutanea (alla dose di 0,125 unità/kg due volte al giorno e, per 4 giorni/anno, insulina umana regolare in infusione endovenosa in ambito di ricovero ospedaliero), e insulina orale (alla dose di 7,5 mg al dì), entrambi confrontati con un gruppo placebo. I soggetti eleggibili venivano sottoposti a screening mediante dosaggio degli autoanticorpi (IAA) e, se positivi, si sottoponevano al test di tolleranza al glucosio, per via endovenosa (IVGTT) e per via orale (OGTT). I soggetti con anomalie della prima fase di risposta insulinica all’IVGTT e/o alterazioni glicemiche durante l’OGTT, venivano considerati ad alto rischio e inclusi nel gruppo di intervento con insulina parenterale; i soggetti senza anomalie metaboliche ma con positività anticorpale, considerati a medio rischio, venivano arruolati nello studio con insulina orale. Nessuno dei due interventi ha dimostrato di ritardare o prevenire lo sviluppo di DM1 rispetto al gruppo placebo, sebbene un’analisi post-hoc sembrerebbe indicare un’incidenza di DM1 significativamente minore in un sottogruppo di soggetti con IAA ad alto titolo (≥80 nU/ml), in almeno due occasioni, trattati con insulina orale rispetto al placebo [17]. Nonostante l’assenza di efficacia, lo studio DPT-1 ha permesso di studiare approfonditamente le modifiche dei livelli di glicemia e di C-peptide durante la progressione di malattia nei soggetti che hanno sviluppato DM1 e, su questa base, sviluppare uno score di rischio (DPTRS), convalidato poi in una coorte separata di soggetti con autoimmunità, che potrebbe essere potenzialmente utilizzato per identificare con precisione gli individui ad alto rischio arruolabili in studi di prevenzione o che potrebbero beneficiare di trattamenti per la prevenzione del DM1 [17].

L’utilizzo di insulina orale alla dose di 7,5 mg/die, invece, non sembra in grado di ritardare o impedire l’insorgenza di DM1 rispetto al placebo in un altro trial condotto in parenti di pazienti diabetici con almeno 2 autoanticorpi positivi e alterato pattern di secrezione insulinica all’IVGTT; tuttavia, nel sottogruppo di soggetti con positività autoanticorpale e ridotta funzione \(\beta \)-cellulare una minor percentuale di pazienti trattati con insulina ha sviluppato DM1 rispetto a quelli che ricevevano placebo (48,1 contro 70,3%) e l’intervallo di tempo prima della diagnosi era significativamente maggiore [18]. Infine, alcuni studi hanno valutato l’utilizzo di insulina per via intranasale in parenti di soggetti diabetici con positività autoanticorpale (Intranasal Insulin Trial, INIT I e INIT II; Diabetes Prediction and Prevention study, DIPP) che, nonostante abbiano dimostrato la sicurezza del trattamento, non sono stati in grado di dimostrare un chiaro beneficio nella prevenzione del DM1 [19, 20].

Anche l’approccio antigene-specifico basato sulla somministrazione di GAD coniugato a idrossido di alluminio (GAD-alum), allo scopo di modulare il sistema immunitario per prevenire la distruzione delle \(\beta \)-cellule, non sembra influenzare la progressione del DM1. Nello studio Diabetes Prevention - Immune Tolerance (DIAPREV-IT), condotto in bambini normoglicemici, GAD-positivi e con almeno un altro autoanticorpo positivo, il trattamento autoantigene-specifico con GAD-Alum, sebbene sicuro e ben tollerato, è risultato inefficace nel ritardare o prevenire la malattia [16].

Esistono dati limitati che suggeriscono il potenziale beneficio di basse dosi di ciclosporina nel ritardare l’esordio di DM1 in parenti di primo grado di pazienti diabetici, con autoimmunità e alterazioni della risposta insulinica all’IVGTT; in particolare, si è osservato un minor tasso di incidenza di DM1 e un miglioramento della prima fase di risposta insulinica nei pazienti sottoposti a trattamento rispetto a coloro che ricevevano placebo, a suggerire una compromissione funzionale reversibile delle \(\beta \)-cellule nella fase pre-clinica del DM1 [21].

Tra gli approcci non farmacologici valutati in prevenzione secondaria, è stato ipotizzato un ruolo della nicotinamide nel prevenire la comparsa di DM1, grazie all’effetto di riduzione del danno indotto da radicali liberi alle \(\beta \)-cellule dimostrato in modelli animali. Tuttavia, gli studi in soggetti ad alto rischio di DM1, con positività autoanticorpale, con o senza alterata funzione \(\beta \)-cellulare, non ne hanno confermato il potenziale protettivo [22].

Prevenzione terziaria del diabete di tipo 1

Il tentativo di preservare anche parzialmente la produzione insulinica endogena può sicuramente rappresentare una strategia preventiva nell’ambito del DM1 con l’intento di migliorare il controllo metabolico e avere un impatto significativo sugli esiti a lungo termine della malattia. È ormai noto da tempo come il raggiungimento e il mantenimento di uno stretto controllo glico-metabolico dopo la diagnosi di DM1 sia efficace nel prevenire o quanto meno nel ritardare la comparsa delle complicanze a lungo termine [23]. Sebbene gli studi clinici dimostrino come l’outcome terapeutico sia fortemente influenzato dalla funzione \(\beta \)-cellulare residua [24], tuttavia intervenire anche in fasi più avanzate della malattia potrebbe avere un senso se pensiamo che il declino della funzione \(\beta \)-cellulare nei pazienti con DM1 è estremamente variabile e che la secrezione endogena di insulina può persistere anche dopo anni dalla diagnosi [7, 16].

Esistono dati incoraggianti sul beneficio di trattamenti immunomodulanti, atti a preservare la massa \(\beta \)-cellulare, in pazienti con DM1 già clinicamente manifesto: ad esempio, l’utilizzo di globulina anti-timociti (ATG) a basso dosaggio (2,5 mg/kg), eventualmente combinata con il fattore stimolante le colonie di granulociti (G-CSF), in individui con DM1 di recente insorgenza, sembra efficace nel rallentare il declino del C-peptide e ridurre i livelli di emoglobina glicata, probabilmente per effetto di un aumento delle cellule T regolatorie rispetto alle cellule T CD4+ [25]. Alla luce dei risultati promettenti sulla preservazione dei livelli di C-peptide, l’ATG è attualmente in studio per valutarne efficacia e tollerabilità alla dose minima efficace, in pazienti con DM1 di recente insorgenza, 3–9 settimane (studio NCT 03936634).

Gli anticorpi monoclonali rituximab (anti-CD20) e teplizumab (anti-CD3) sembrano rallentare il declino del C-peptide in soggetti DM1 di recente diagnosi, basso fabbisogno insulinico e C-peptide basale dosabile [26, 27]. La modulazione dell’attivazione delle cellule T potrebbe rivestire un’efficacia nel preservare la funzione \(\beta \)-cellulare; in questo contesto, l’utilizzo di Abatacept (CTLA4-Ig) si associa a un rallentamento del declino \(\beta \)-cellulare a 2 anni dalla diagnosi [28], alefacept (anti-CD2) sembra influire sui livelli di C-peptide, sul numero di eventi ipoglicemici e sul fabbisogno insulinico [29], etanercept (anti-TNF\(\alpha \)) sembra aumentare la produzione di insulina endogena, migliorando i livelli di emoglobina glicata rispetto al placebo [30].

Anche l’utilizzo di alfa-1 antitripsina (AAT) ha dimostrato di proteggere le \(\beta \)-cellule probabilmente grazie all’azione antivirale e antibatterica, e i risultati preliminari di alcuni studi clinici nel DM1 suggeriscono un miglioramento della produzione di insulina in circa la metà dei soggetti trattati [31]. L’antagonismo dell’interleuchina 1 mediante utilizzo di canakinumab e anakinra non ha invece dimostrato un’efficacia terapeutica nel DM1 di recente insorgenza [32]. L’uso di IL-2 sembra indurre un aumento dose-dipendente della proporzione di cellule T regolatorie, pur senza evidenti modifiche dei parametri glico-metabolici [33].

L’utilizzo di ciclosporina ad alte dosi ha dimostrato di indurre la remissione del DM1, sebbene l’utilizzo sia limitato dalla tossicità; a questo proposito, alcuni vantaggi in termini di tollerabilità e sicurezza potrebbero derivare dall’associazione di basse dosi di ciclosporina con metotrexate, che sembra indurre in modo sicuro la remissione della malattia di recente insorgenza e diminuire il fabbisogno insulinico [34].

Infine, è interessante citare alcuni farmaci, attualmente in commercio con altre indicazioni cliniche, in corso di valutazione nel DM1 di recente diagnosi, in quanto sembrano avere un effetto protettivo sulle \(\beta \)-cellule, migliorandone la sopravvivenza e favorendone la rigenerazione: tra questi, il calcio-antagonista verapamil, l’associazione di sitagliptin e di inbitori di pompa protonica, la vitamina D.

Conclusioni

Analizzando quanto detto finora, se consideriamo la complessità dei meccanismi immunologici, non ancora del tutto noti, che contribuiscono alla patogenesi del DM1, una strategia vincente potrebbe essere ad esempio quella di combinare più trattamenti in modo da agire contemporaneamente su più bersagli, oppure combinare l’immunoterapia con terapie metaboliche utilizzando farmaci che preservano la salute/funzione delle \(\beta \)-cellule come, ad esempio, la testata associazione fra IL-21 e liraglutide [11]. Un altro concetto importante da tenere in considerazione per raggiungere un’efficacia preventiva è quello dell’eterogeneità del DM1, la quale indubbiamente influenza il successo o meno di un determinato trattamento; si aggiunge poi la necessità di biomarcatori che ci permettano sia di selezionare meglio la popolazione di studio che di delineare la risposta a un determinato intervento preventivo/terapeutico. La possibile applicazione nella pratica clinica di questi ultimi concetti espressi, sta diventando tuttavia una realtà. Ne è un esempio il progetto An Innovative Approach Towards Understanding and Arresting Type 1 Diabetes (INNODIA), un consorzio internazionale, promosso nel 2015, che vede la collaborazione di ricercatori di tutta Europa, impegnati nello studio del DM1 (www.innodia.eu). Lo scopo principale di INNODIA è quello di migliorare radicalmente il modo di predire, valutare e prevenire l’insorgenza e la progressione di questa malattia, grazie a una migliore comprensione delle complesse interazioni fra il sistema immunitario, i fattori ambientali e la \(\beta \)-cellula. Questo grazie all’identificazione e alla validazione di nuovi biomarcatori che riflettano l’eterogeneità della malattia, attraverso la creazione di biobanche, lo studio delle omiche (genomica, epigenomica, metabolomica, proteomica, transcrittomica, lipidomica, microbiomica), l’utilizzo della bioinformatica applicata ai big data, la formulazione di nuovi modelli di malattia e paradigmi di sperimentazione clinica. L’utilizzo di questi strumenti renderà possibile distinguere e comprendere a livello cellulare e molecolare i vari stadi di progressione di questa eterogenea malattia, andando a incidere sulla gestione futura dei pazienti con DM1 e degli individui a rischio di sviluppare la malattia.