Commento a:

Adipose tissue in COVID-19: detection of SARS-CoV-2 in adipocytes and activation of the interferon-alpha response.

A. Basolo, A.M. Poma, D. Bonuccelli, A. Proietti, E. Macerola, C. Ugolini, L. Torregrossa, R. Giannini, P. Vignali, F. Basolo, F. Santini, A. Toniolo.

J Endocrinol Invest (2022) 45(5):1021–1029

Il presupposto di questo studio [1] è il riconoscimeno dell’obesità come un fattore di rischio per la progressione verso forme gravi di COVID-19 ma, ad oggi, i meccanismi dell’associazione non sono chiari. Lo studio è basato sull’esame di 23 campioni di tessuto adiposo sottocutaneo addominale di soggetti deceduti per COVID-19 che sono stati confrontati con quelli di soggetti di controllo deceduti per morte improvvisa (trauma accidentale o morte cardiaca). In tutti i soggetti COVID-19 erano stati riscontrate alterazioni parenchimali polmonari compatibili con SARS-CoV-2 moderata o grave; queste alterazioni non erano presenti nei controlli. Venivano esaminate le caratteristiche isto-patologiche, la presenza dell’antigene e del genoma virali, la caratterizzazione dell’infiltrazione leucocitaria e i livelli di trascrizione dei geni correlati all’immunità.

Attraverso la metodica RT-PCR, il genoma SARS-CoV-2 era riscontrato nel tessuto adiposo di 13/23 casi del gruppo COVID-19 (56%). L’antigene nucleocapsidico del virus è stato riscontrato nell’1–5% degli adipociti di 12/12 casi COVID-19 che erano positivi all’indagine molecolare attraverso PCR sul tessuto adiposo (un caso non è stato testato per materiale insufficiente). Il tessuto adiposo dei casi COVID-19 mostrava un infiltrato leucocitario e un’iper-espressione di inteferon-alfa (IFN-alfa). Dopo aggiustamento per sesso ed età lo score di attivazione di IFN-alfa era correlato direttamente con i livelli di trascrizione del gene ACE2, che è un fattore chiave di internalizzazione del virus. Gli autori hanno concluso che nei casi mortali di COVID-19 l’antigene nucleocapsidico SARS-CoV-2 è stato rilevato in una proporzione considerevole di adipociti, dimostrando che il virus può infettare direttamente le cellule parenchimale del grasso sottocutaneo. L’infezione sembra attivare la via dell’INF-alfa e indurre l’infiltrato leucocitario. Dato il numero enorme di adipociti negli adulti, il tessuto adiposo costituisce una riserva per SARS-CoV-2 e una fonte importante di mediatori infiammatori.

Commento

Secondo la World Obesity Federation [2] l’obesità, le malattie cardiovascolari e il diabete sembrano peggiorare gli effetti dell’infezione da SARS-CoV-2, con un maggior rischio di sviluppare complicanze. Studi recenti [3, 4] hanno evidenziato livelli elevati di citochine infiammatorie nei soggetti con malattia da SARS-CoV-2; d’altra parte, è ampiamente riconosciuto che l’obesità è una condizione di infiammazione cronica di basso grado mediato da prodotti infiammatori secreti direttamente dal tessuto adiposo in eccesso: le adipochine pro-infiammatorie. Esistono, quindi, degli elementi comuni tra obesità e infezione da SARS-CoV-2 che possono spiegare come, in presenza di uno stato infiammatorio cronico come si verifica nell’obesità, l’infezione da SARS-CoV-2 risulta clinicamente più grave e letale.

Nello studio di Basolo A e collaboratori [1] si dimostra che l’antigene SARS-CoV-2 è espresso negli adipociti di soggetti affetti da COVID-19, che l’infiltrato infiammatorio è ben rappresentato e che la trascrizione dell’enzima 2 di conversione dell’angiotensina (ACE2), che rappresenta il fattore chiave di entrata del virus, è iper-espresso nel tessuto adiposo infetto. Questi dati suggeriscono che il tessuto adiposo infetto, in quanto fonte di citochine infiammatorie, rappresenti di per sé un fattore di aggravamento sistemico della risposta infiammatoria SARS-Cov-2 correlata: in altre parole, la presenza del virus all’interno dell’adipocita costituisce un fattore peggiorativo dello stato infiammatorio sistemico già presente. Questo corrispettivo istologico potrebbe contribuire a chiarire il dato epidemiologico che i soggetti con obesità sono maggiormente a rischio di sviluppare una malattia COVID-19 più grave e letale.

Si riconoscono nello studio alcuni limiti, tra i quali il numero ristretto dei casi esaminati e, soprattutto, la mancanza dei dati clinici e bioumorali dei soggetti esaminati post-mortem che avrebbero potuto contribuire a definire meglio il profilo di rischio di gravità di malattia COVID-19 associato all’obesità e i protocolli specifici di interventi di prevenzione e di terapia in questa patologia.