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Introduzione
La carenza di Vitamina D (VitD) rappresenta un problema epidemico e di salute pubblica, essendo una condizione molto diffusa in tutte le etnie e in tutte le fasce d’età [1–3].
Con l’avanzare dell’età, l’ipovitaminosi D è più frequente nella popolazione, soprattutto dopo i 70 anni e nelle donne rispetto agli uomini, a causa di molteplici fattori: la minor esposizione agli ultravioletti (soprattutto per pazienti ricoverati), la ridotta produzione cutanea di VitD (a parità di esposizione solare il soggetto anziano ne produce il 30% in meno) ma anche la limitata assunzione di cibi come il latte e derivati, nel tentativo di ridurre il rischio cardiovascolare [2].
Con l’avanzare dell’età, inoltre, si riduce l’espressione dei recettori per la VitD, soprattutto a livello dell’intestino, del rene e del muscolo. Allo stesso modo si riduce la capacità dell’organismo di produrre il metabolita attivo della VitD, il 1,25(OH)2D (calcitriolo) in risposta alla secrezione di paratormone. Pertanto, soprattutto nell’anziano, si rende spesso necessaria la supplementazione, per mantenere i livelli di 25(OH)D adeguati [2–4].
La supplementazione con VitD viene utilizzata in prevenzione primaria per la riduzione del rischio di frattura; in tutti i casi di prevenzione secondaria delle fratture da fragilità è invece somministrata insieme alla terapia antiriassorbitiva ossea [4, 5].
Valutazione dello stato carenziale
È ancora in fase di definizione una standardizzazione univoca dei metodi di valutazione della riserva biodisponibile di VitD [3]. Il miglior indicatore dello stato di deplezione vitaminica, utilizzato per identificare valori soglia, è considerato il dosaggio della 25(OH)D, principale metabolita circolante della VitD (Tabella 1) [5].
Lo screening “a tappeto” dell’ipovitaminosi D non è economicamente sostenibile; essendo stato stimato che la quasi totalità delle persone oltre i 70 anni ne sia affetta, il dosaggio della 25(OH)D ha indicazione solo in specifici contesti clinici. L’introduzione della nuova nota 96 per la prescrivibilità della misurazione della VitD con il SSN rende però spesso necessario il dosaggio di 25(OH)D. Attualmente, in Italia, vengono ritenuti ottimali livelli di 25(OH)D superiori a 30 ng/ml (75 nmol/L) ma, da taluni, anche livelli superiori a 20 ng/ml (50 nmol/L) sarebbero accettabili, poiché associati a riduzione del rischio di frattura (Tabella 1) [4–6].
Indicazioni terapeutiche
Una stima univoca del fabbisogno giornaliero di VitD, divisa per fasce d’età, è ancora in via di definizione; tuttavia, si ipotizza che sopra i 70 anni il fabbisogno giornaliero medio di VitD sia circa 2300 UI. Considerato che l’alimentazione, in Italia, garantisce circa 300 UI/die, si stima sia necessaria, dopo i 70 anni, una supplementazione di almeno 2000 UI/die [4–6].
Tale terapia è principalmente basata sull’impiego del colecalciferolo per os, con differente posologia a seconda del grado di carenza e di eventuali comorbilità o terapie interferenti (per esempio antiepilettici o steroidi) [2, 5]. La formulazione per uso parenterale si riserva in genere alle situazioni di grave malassorbimento [4].
La dose di VitD può essere assunta settimanalmente, anche per migliorare la compliance. L’utilizzo di boli semestrali o annuali è tuttora controversa [4, 5]. In ogni caso, gli schemi terapeutici da utilizzare sono ancora dibattuti.
Nei pazienti con insufficienza epatica grave, malassorbimento importante o insufficienza renale cronica stadio 4 è indicato l’impiego dei metaboliti idrossilati (calcifediolo, calcitriolo) [5, 6].
La terapia utilizzata per la prevenzione della carenza, nei soggetti ultrasettantenni, è in genere costituita da un dosaggio di 300.000 UI cumulative nei 3 mesi invernali (25.000 UI a settimana) seguite da 1000 UI/die (30.000 UI/mese) nei restanti mesi dell’anno.
Per il trattamento della carenza e insufficienza, invece, il dosaggio iniziale da somministrare è influenzato dal valore di 25(OH)D rilevato alla diagnosi. Sono stati ipotizzati schemi di trattamento che prevedono una dose iniziale di 300.000 da somministrare nelle prime settimane, per poi proseguire con una dose di mantenimento tra 800 UI e 2000 UI al dì, anche a seconda dell’alimentazione e dello stile di vita (Tabella 2). Alcuni autori suggeriscono dosaggi maggiori (900.000 UI in 3 mesi) per ottenere un rapido raggiungimento di adeguati valori di 25(OH)D in pazienti gravemente carenti.
Soprattutto in pazienti che assumono più di 1000 UI/die, in presenza di iperparatiroidismo primitivo o patologie granulomatose, è indicato controllo dei livelli di 25(OH)D durante il trattamento, per scongiurare il rischio del sovradosaggio. La dose massima giornaliera correlata a un aumentato rischio di intossicazione è di 4000 UI/die.
Conclusioni
La maggior parte dei soggetti ultrasettantenni è da considerarsi affetta da carenza di VitD. Il dosaggio della 25(OH)D su ampia scala non è economicamente sostenibile, ma è possibile avviare il trattamento, a scopo preventivo, modificando la posologia a seconda dello stile di vita. In caso di carenza o insufficienza il dosaggio è modulabile sulla base dello stato di deplezione e delle eventuali comorbilità interferenti con il metabolismo vitaminico.
Bibliografia
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Funding
Open access funding provided by Università degli Studi di Genova within the CRUI-CARE Agreement.
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Conflitto di interesse
Gli autori Mara Boschetti, Manuela Albertelli e Lara Vera dichiarano di non avere conflitti di interesse.
Consenso informato
Lo studio presentato in questo articolo non ha richiesto sperimentazione umana.
Studi sugli animali
Gli autori di questo articolo non hanno eseguito studi sugli animali.
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Boschetti, M., Albertelli, M. & Vera, L. L’ipovitaminosi D nell’anziano: indicazioni al trattamento. L'Endocrinologo 22 (Suppl 1), 81–83 (2021). https://doi.org/10.1007/s40619-021-00900-w
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