Introduzione

La recente proposta internazionale di ridefinire le neoplasie ipofisarie come “tumori neuroendocrini dell’ipofisi” (PitNET) è basata sull’assunto che essi derivino da “cellule neuroendocrine”, simili a quelle che danno origine ai tumori neuroendocrini del tratto gastro-entero-pancreatico (GEP) e respiratorio (c.d. NET). Infatti, tutti questi tumori possono manifestare aggressività variabile, risposta farmacologica impredicibile, metastasi a distanza e recidiva postoperatoria, che non giustificano la benignità insita nel termine “adenoma” [1]. Tuttavia, l’idea non è nuova e fu, per la prima volta, suggerita su base embriologica, nel 1980, da Seymour Reichlin, padre della neuroendocrinologia clinica americana (Fig. 1a) in base all’evidenza che nell’embrione di pollo l’adenoipofisi sviluppava dall’estremità antero-ventrale del tubo neurale, ossia dal placode ipofisario e quindi conteneva cellule neuroectodermiche [2], le stesse dalle quali si formano anche le creste neurali che danno origine a numerosi tipi (sebbene non a tutti) di “cellule neuroendocrine” dell’organismo dei vertebrati, uomo incluso [3]. Inoltre, l’assunto dei PitNET pone la loro patogenesi sullo stesso piano di quella dei NET, recentemente discussa da uno tra i più importanti patologi del XX secolo, Juan Rosai [4]. Rosai, in controtendenza rispetto all’attuale prospettiva patogenetica focalizzata su mutazioni e marker molecolari [5], osserva che una caratteristica dei NET (specie quelli enterici, a morfologia epiteliale e i nevi melanocitici benigni della cute) e delle loro cellule è l’associazione con le terminazioni nervose periferiche (simpatiche/parasimpatiche). Questo “contatto” potrebbe fungere da innesco (e persino da sorgente) per la proliferazione neoplastica di un qualsiasi fenotipo cellulare “neuroendocrino” supportando l’idea che, per dare origine a un qualsiasi NET, è sufficiente la clonogenesi tumorale di una cellula staminale residente in grado di assumere fenotipo “neuroendocrino” in relazione agli stimoli del suo microambiente [3], come l’innervazione vegetativa (Fig. 1b) Nel tratto GEP questa possibilità sembra confermata dalla similitudine strutturale dei differenti NET, costituiti da un identico lattice di travate con cellule differenziate e indifferenziate, separate dalla medesima amiloide amorfa, che suggerisce un progenitore comune orientato a una funzione neuroendocrina variabile (Fig. 1c). Tale principio generale è oggi rafforzato dall’evidenza che nell’ipofisi fetale umana sono presenti cellule che sintetizzano cromogranine, un marcatore tipico dei NET [6] e che le cellule C della tiroide, nei mammiferi e nell’uomo, non derivano dalla cresta neurale ma dalla faringe come staminali endodermiche [7], iniziando la sintesi di cromogranine (e quindi assumendo un fenotipo neuroendocrino) una volta entrate nel microambiente dell’abbozzo fetale della tiroide umana [8].

Fig. 1
figure 1

a Immagine di Seymour Reichlin. Allievo di Geoffry Harris all’Università di Londra (Maudsley Hospital, South London), nel biennio 1952–1954, condusse i primi esperimenti in vivo sul coniglio che dimostrarono il ruolo dell’ipotalamo nel controllo della secrezione del TSH (J Physiol 126, 1–28; 29–40, 1954); \(\mathbf{b}\) primo schema che riporta esplicitamente il ruolo dell’innervazione (riquadro rosso) nell’induzione neoplastica della nicchia staminale, prevista (\(\mathbf{c}\)) sino dal 1984 da De Lellis anche per qualsiasi fenotipo staminale che differenzia a funzione neuroendocrina (neuroendocrine function, NEF). Questo meccanismo permette di comprendere la contemporaneità di cellule differenziate (NEF azzurre), anche a secrezione multipla (co-secrezione) e/o incompleta (NEF verdi chiare) e indifferenziate (no-NEF gialle e verdi scure) nello stesso tumore neuroectodermico (come si osserva nei NET e PitNET); \(\mathbf{d}\) sezione dalla monografia originale di Cushing del 1912 (The Pituitary Body and its Disorders) con le indicazioni del primo paziente trapiantato con ipofisi neonatale a scopo sostitutivo. La ghiandola fu inserita a livello subcorticale (sostanza bianca) del lobo temporale (a seguito degli esperimenti di Cushing sui cani) e la sua funzione sostitutiva si esaurì in circa 6 settimane, certamente in relazione all’assenza del neurotrofismo ipotalamico, oltre al fatto che i capillari subcorticali sono tortuosi e spiralizzati, con flussi vorticosi pulsati, molto differenti da quelli continui e a bassa portata dei capillari portali ipofisari; \(\mathbf{e}\) disegno originale dal lavoro di Harris del 1948 (J Physiol 107, 418) sull’effetto della stimolazione elettrica ipotalamica tuberale (area quadrettata) nel coniglio. Si noti la stretta relazione tra area stimolata elettricamente e vasi portali del tuber cinereum, che raggiungono l’adenoipofisi; \(\mathbf{f}\) particolare dello schema originale di Melmed et al. [9] che ipotizza, per la prima volta, un ruolo di promozione neoplastica adenoipofisaria per la neurosecrezione ipotalamica

L’asse ipotalamo-ipofisi rappresenta un esempio paradigmatico della relazione neuro-(endocrino)-epiteliale proposta da Rosai per giustificare lo sviluppo dei NET, storicamente alla base anche dell’attuale concetto dei PitNET. Infatti, l’ipotalamo (con il suo tratto tuberoinfundibolare) e la neuroipofisi costituiscono l’efferenza nervosa, mentre l’adenoipofisi la porzione epiteliale innervata. Nei pesci il contatto neuro-epiteliale è diretto, mentre in anfibi, rettili, uccelli (gli ultimi dinosauri viventi) e mammiferi incluso l’uomo si sviluppa un tramite vascolare (il sistema portale) che trasferisce l’informazione neurale (il neurosecreto) alle cellule ghiandolari [3]. La mancanza di questo rapporto neuro-epiteliale generò il fallimento del primo trapianto intraemisferico di ipofisi nell’uomo ipopituitarico, tentato nel 1912 da Harvey Cushing (Fig. 1d) ma permise a G.W. Harris di provare sperimentalmente nel ratto, tra il 1944 e il 1948, il controllo neurale ipotalamico sull’epitelio (neuroectodermico) ipofisario (Fig. 1e). Infine, nel 1983 Shlomo Melmed e Kalman Kovacs applicarono il medesimo concetto in senso “oncogenico” [9], ipotizzando un’azione di promozione neoplastica delle secrezioni ipotalamiche sull’adenoipofisi, confermata nel 1984 da Sylvia Asa in un caso di ipersecrezione ipotalamica [10]. In questo modo, neurosecrezione e neurotrofismo venivano nuovamente ricomposti in un’unica relazione neuro(endocrino)-epiteliale, l’unità ipotalamo-ipofisi.

Concetti sul ruolo dell’ipotalamo nell’antichità classica

Il termine ipotalamo deriva dal greco antico \(\upsilon \uppi \mbox{o}\) = sotto e \(\uptheta \upalpha \uplambda \upalpha \upmu \mbox{o}\upsigma \) = letto, per definire la porzione del diencefalo che, in tutti i vertebrati, è posta sotto al talamo e corrisponde alle pareti del 3° ventricolo cerebrale. Il termine fu introdotto nella letteratura scientifica internazionale, per la prima volta, nel 1893 dall’embriologo svizzero Wilhelm His il quale, studiando l’ontogenesi del cervello fetale umano, definì la porzione diencefalica preottica, il tuber cinereum e l’infundibolo ipotalamico come pars opica hypothalami [11]. Tuttavia, sia il talamo che l’ipotalamo furono, originariamente, identificati nell’ambito dell’antica medicina Indiana, pre-vedica (XV secolo a.C.) e più tardi vedica (V secolo a.C.), come un “centro energetico” chiamato ājñā chakra, posto all’estremità superiore del tronco dell’encefalo [6]. Esso era simbolizzato da due petali del fiore di loto, che ricordano il contorno delle due masse talamiche, in continuità verso il basso con i due lobi della ghiandola ipofisi, attraverso numerosi canalicoli, chiamati nadis dall’anatomia tantrica [6], che oggi sappiamo corrispondono alla distribuzione degli assoni del sistema tuberoinfundibolare ipotalamo-ipofisario (Fig. 2a–c). Inoltre, ancora oggi la fisiologia tantrica ascrive alla meditazione yoga la capacità di modificare l’autoconsapevolezza e lo stato di coscienza attraverso l’attivazione dell’ājñā chakra [12]. Questa possibilità sembra confermata dall’evidenza sperimentale che, nel ratto, la stimolazione talamica induce modifiche comportamentali implicanti autoconsapevolezza, associate a rilascio di ossitocina neuroipofisaria [13] mentre nell’uomo l’ipnosi attiva il talamo e, contemporaneamente, il rilascio adenoipofisario di ACTH e \(\upbeta \)-endorfine [14]. Si conclude che il concetto vedico dell’ājñā chakra fornisce l’evidenza anatomo-funzionale più antica di una connessione ipotalamo-ipofisaria regolata dal talamo per il mantenimento dello “stato energetico” dell’organismo, espresso complessivamente dalla coscienza.

Fig. 2
figure 2

\(\mathbf{a}\) Schema della localizzazione anatomica del l’ājñā chakra nella medicina indiana e nella tradizione dello yoga tantra, che corrisponde (\(\mathbf{b}\)) alla massa talamica, al di sotto della quale (area dell’ipotalamo) sono riconoscibili condotti (nadis, in rosso, corrispondenti alle fibre dell’odierno tratto tuberoinfundibolare) che raggiungono l’ipofisi (PIT); \(\mathbf{c}\) l’ājñā chakra viene rappresentato come due petali del fiore di loto, la cui morfologia riprende il profilo bilobato del talamo; \(\mathbf{d}\) rappresentazione del naggakal tantrico, costituito da due serpenti che si avvolgono a spirale, simbolo del decorso dell’energia corporea nella fisiologia yoga (Harappa, Pakistan, 2000 a.C.). Si noti che nel cerchio inferiore è rappresentato il fiore di loto con tutti i petali; \(\mathbf{e}\) mosaico del II–III secolo d.C. che mostra il dio Asclepio che visita l’isola di Kos, atteso da Ippocrate (seduto a destra, Museo dell’Isola di Kos). Asclepio tiene in mano un bastone su cui si avvolge un serpente (freccia), molto simile al naggakal indiano; \(\mathbf{f}\) lapide che ricorda l’antico ospedale per le malattie mentali della Turchia dell’Est, dove nel X–XI secolo d.C. era presente il persiano Avicenna. Si noti a destra il bassorilievo indicativo della medicina islamica, con il simbolo tantrico del naggakal indiano e, al centro, il fiore di loto; \(\mathbf{g}\) primo disegno, in sezione sagittale paramediana, dei taniciti (freccia) del terzo ventricolo ipotalamico (cerchio verde) e loro contatto con le fibre della neuroipofisi (asterisco) nel topo (Cajal, Histologie du systeme nerveux de l’homme et des vertebres. Vol 2. Paris, 1911); \(\mathbf{h}\) nei mammiferi i taniciti (frecce) sono ricchi in deiodinasi di tipo 2 (D2), in grado di convertire l’FT4 circolante a FT3. In condizioni di flogosi e malnutrizione (NTI – sick euthyroid syndrome) le citochine amplificano questo meccanismo e l’FT3 viene rilasciata dai taniciti sia nel liquor (CFS) ventricolare che a livello dell’eminenza mediana, dove viene riassorbita con flusso neuronale retrogrado dai neuroni tuberoinfundibolari a TRH, inibendoli. Ciò contribuisce a ridurre il rilascio di TRH dall’eminenza mediana, producendo il quadro classico della NTI con inappropriata secrezione, normale-bassa, di TSH

Oggi è ragionevole credere che il concetto di “stato energetico” che legava il complesso talamo-ipotalamico con la coscienza sia potuto transitare dall’antica medicina indiana a quella greca del V secolo a.C., la medicina ippocratica. Infatti Erodoto, contemporaneo di Ippocrate, nelle Storie riferisce numerosi aspetti della medicina vedica [3] e lo stesso simbolo della medicina ippocratica (tutt’oggi simbolo della medicina occidentale), il bastone di Asclepio (dio greco della medicina), era rappresentato nel II–III secolo d.C. come un’asta attorno alla quale si avvolgeva a spirale un serpente, molto simile al naggakal tantrico (che compare già oltre duemila anni prima nell’antica India, oggi Pakistan), simbolo sessuale ed energetico, divenuto poi simbolo anche della medicina islamica, insieme al fiore di loto (Fig. 2d–f). A conferma dell’influenza vedica sul rapporto energia-coscienza nella medicina occidentale, Ippocrate considerava il cervello (pur non specificandone la parte) essenziale affinché un principio energetico (l’aria) fosse utilizzabile dal corpo per conservare la vigilanza e la reattività agli stimoli ambientali (stato di coscienza). Nel Corpus Ippocraticum, infatti, viene descritta perdita di coscienza quando il cervello “malato” non può agire come condotto di trasferimento ai polmoni dell’“energia” (l’aria inspirata), come in corso di insufficienza ventilatoria da epilessia: “l’aria [...] quando entra [...] nel cervello [...] procura l’attività mentale e il movimento [...], quando il flegma inibisce alle vene l’accoglimento dell’aria il malato è reso afono e incosciente [...], il cervello è invero il veicolo della coscienza” (Male Sacro, 10 e 19).

Tuttavia fu Galeno, nel II secolo d.C., che per primo pose l’attenzione sul 3° ventricolo (le cui pareti e pavimento costituiscono l’ipotalamo) come struttura regolatrice dell’energia corporea e della coscienza [15, 16]. In particolare, egli osservò che la sua lesione traumatica o chirurgica nell’uomo induceva perdita di vigilanza, motricità e somatoestesi (De Loci Affectis), che oggi sappiamo dovute a interruzione delle vie reticolari ascendenti (attivanti la veglia), della capsula interna (vie discendenti motorie piramidali ed extrapiramidali) e delle fibre spinotalamiche (sensitive e contenute nel lemnisco laterale), che corrono tutte nella o adiacenti alla porzione esterna della parete ventricolare, dove si trova anche la massa del talamo. Inoltre, suppose che nel 3° ventricolo si accumulassero le impurità derivate dalla trasformazione dell’“energia corporea” (il pneuma o spirito vitale) in “sensazione e impulso” (il pneuma psichico o spirito animale, corrispettivo dell’odierno impulso nervoso), responsabili dell’attività psichica (l’anima razionale). Dal 3° ventricolo le “impurità” sarebbero state drenate attraverso l’infundibolo e l’ipofisi, che diventava una specie di “filtro” dell’impulso nervoso (anticipando così, inconsapevolmente, il concetto moderno di secrezione neuroendocrina tuberoinfundibolare). Questa trasformazione energetica (oggi diremmo questo processo metabolico) si svolgeva nella rete vascolare attorno all’ipofisi (la rete mirabilis), una struttura che Galeno afferma, nel suo De Usu Pulsuum (un trattato sul valore clinico delle pulsazioni periferiche) essere stata descritta 500 anni prima dall’anatomico Erofilo di Calcedonia (o Alessandria), che come Galeno aveva studiato numerose specie di mammiferi dove la rete mirabilis è presente come sistema vascolare termoregolativo del diencefalo [17]. Per altro, una rete mirabilis periipofisaria può spontaneamente svilupparsi anche nell’uomo, per drenare nel circolo di Willis il flusso arterioso bloccato a seguito di ipoplasia o ostruzione della porzione cavernosa della carotide interna, tramite pervietà di anastomosi vascolari embrionali normalmente inattive [18].

La prospettiva galenica della rete mirabile nell’uomo come struttura per il metabolismo energetico e la produzione di “impurità” (poi espulse dall’ipofisi all’esterno, nel nasofaringe, percolando attraverso canalicoli nel corpo dell’osso sfenoide) si è oggi caricata di una valenza inattesa alla luce di recenti osservazioni su roditori e uomo, che provano l’esistenza del sistema glimfatico, costituito da una rete di canali paravascolari (incluso il sistema artero-venoso ipofisario), in diretta connessione con le cisterne liquorali cerebrali e quindi la circolazione cerebrorachidiana, che drenano fuori dal cranio le impurità metaboliche dell’attività neuronale, connettendosi sia ai vasi linfatici che decorrono nello spessore della dura madre dei seni venosi della scatola cranica sia alle guaine durali perineurali che raggiungono, tramite il nervo olfattivo, la mucosa sensoriale nasale [19]. Un rallentamento di questo flusso aumenta la permanenza delle scorie metaboliche nell’unità ipotalamo-ipofisi, proposta come una delle cause centrali di disordini alimentari (iperfagia, obesità) in corso di diabete mellito di tipo 2 [20] e si manifesta in corso di flogosi cerebrale, di cui il segno radiologico della “coda durale” in corso di ipofisite è un corrispettivo morfologico [19]. Peraltro, alla luce dell’anosmia e ipocorticosurrenalismo osservati in corso di COVID19 [21] risulta di particolare attualità il possibile trasporto retrogrado, glimfatico naso-ipotalamo/ipofisario di virus, analogo a quello ipotizzato per batteri e tossici ambientali [19]. Infine, anche la presenza dei canalicoli sfenoidali (c.d. colatorium, storicamente intesi come la lamina cribrosa dell’etmoide dove passano le fibre olfattive) per il drenaggio delle impurità ipofisarie nel nasofaringe, va reinterpretata alla luce sia della frequente (70% degli adulti) organizzazione multicavitaria del seno sfenoidale [6] sia dell’evidenza che un canale craniofaringeo transfenoidale (residuo dello sviluppo embrionale dell’adenoipofisi) è presente nel 10% dei neonati e persiste nello 0,4% della popolazione generale, dove può divenire sede di un “tumore ipofisario ectopico con manifestazioni endocrine – PitNET ectopico” [1], sviluppatosi da un’ipofisi faringea [22].

Concetti sul ruolo dell’ipotalamo dal Medioevo al XVIII secolo

I concetti galenici riguardo l’unità ipotalamo-ipofisi dominarono il pensiero scientifico biomedico per circa 1200 anni, sino al XIV secolo, quando l’anatomico Mondino dei Liuzzi (allievo a Bologna del clinico Taddeo Alderotti, il medico più famoso del Medioevo, menzionato anche da Dante nel Paradiso – Pd XII, 83), nella sua Anothomia (1316) descrisse il 3° ventricolo come un “integratore” delle funzioni corporee: “Una volta compiute queste cose, ti appare il ventricolo di mezzo che è come una via ed un passaggio dall’anteriore al posteriore; in questo è collocata la facoltà riflessiva (virtus cogitativa) e la ragione (merito), perché questa facoltà opera componendo la fantasia (phantasiam) e i ricordi (memorata), in modo da separare dalle sensazioni (sensatis) le cose non percepite dai sensi (non sensata) [...] Il controllo di tutto l’animale (regimen totius animalis) consiste nel comprendere le cose presenti, ricordare quelle passate e prevedere quelle future; per questo (il ventricolo mediano) deve essere nel mezzo di queste facoltà (harum virtutum) che riguardano la comprensione e la memoria” (De anothomia cerebri). Mondino, quindi, propose un’interpretazione della funzione del 3° ventricolo basata sulla capacità di “integrare” le attività collocate nei ventricoli anteriori (phantasiam/sensatis = ideazione/somatoestesi) e posteriore (memorata = memoria) con quelle vegetative (non sensata = stati viscerali/emozionali), tipiche del ventricolo mediano. Il risultato era la regolazione del comportamento di sopravvivenza (regimen totius animalis). In sintesi, combinando in modo del tutto originale la visione energetica di Aristotele (regimen totius animalis) con quella psico-funzionale di Galeno (harum virtutum), assunta in termini di “funzione ventricolare topografica” dal persiano Avicenna (IX–X secolo d.C., Kitab al-najat o Libro della Salvezza, II, 4), Mondino assegnò al 3° ventricolo il ruolo di regolatore dell’equilibrio vitale (cioè di regolatore omeostatico), in grado di armonizzare le attività sensitivo/sensoriali e motorie (attività dello stato di coscienza) con quelle automatiche e involontarie (attività dello stato di incoscienza), al fine di conservare l’integrità corporea. Mondino, quindi, fornì nel Medioevo il più antico antecedente del concetto moderno di integrazione ipotalamica, dimostrato sperimentalmente solo nella seconda metà del 1900 dagli anatomici Walle J.H. Nauta e H.G.J.M. Kuypers [6, 16, 20].

Nei secoli successivi, la “rivoluzione concettuale” di Mondino per la funzione del 3° ventricolo fu dimenticata e solo le idee fondanti di Galeno transitarono nel lavoro scientifico e artistico del XV–XVI secolo, con le rappresentazioni anatomiche dell’unità ipotalamo-ipofisaria fornite da Leonardo, Vesalio (che si avvalse di di un allievo di Tiziano per le illustrazioni della sua Fabrica, il fiammingo Van Kalkar) e Michelangelo [6, 15, 16, 20]. Leonardo, tuttavia, in controtendenza all’idea medioevale, ascrisse al 3° ventricolo il ruolo di regolatore della somatoestesi (effettivamente controllata dal talamo), rendendo inconsapevolmente conto di evidenze semeiologiche entrate a fare parte dell’interpretazione corrente dei disturbi neurologici osservabili in presenza di lesione espansiva ipotalamo-ipofisaria, inclusa l’iperalgesia frontale da stiramento della dura madre sellare e le alterazioni del sensorio cranio-faciale (emianopsia, parestesie trigeminali e riflesso trigemino-cardiaco con aritmia cardiorespiratoria, ipo/anosmia) e del comportamento (amnesia, insonnia, ipersonnia, iperattività, disforia, depressione) da interessamento nervoso extrasellare. Inoltre, poiché Mondino aderì alla visione galenica della rete mirabile periipofisaria, fu giustamente contestato dall’anatomico Berengario da Carpi che, in almeno 2 scritti di quel periodo (Isagoge Breves e Commentaria supra Anatomia Mundini, 1521), ne riportò l’assenza nell’uomo, mentre gli anatomici Gabriele Fallopio (Observationes Anatomicae, 1561) e Giulio Casserio (Tabulae Anaotomicae, 1627) confermarono l’esistenza di un plesso arterioso nel tuber cinereum dell’ipotalamo degli animali (pur negando la rete mirabile nell’uomo), mentre nel 1662 Thomas Willis, nel Cerebri Anatome, per primo suggerì che “umori” (ossia secrezioni) dal sangue che perfondeva la superficie ventrale del cervello (quindi anche il pavimento del 3° ventricolo), tramite il poligono arterioso che prende il suo nome (di Willis) potevano raggiungere l’ipofisi, come oggi sappiamo fanno le tropine ipotalamiche [15, 16, 20]. Tuttavia, questa ipotesi fu contestata sia da Konrad Victor Schneider che, durante lo stesso periodo, nel Liber Primus De Catarrhis (1660) mostrò che la lamina cribrosa dell’etmoide (attraversata dalle fibre olfattive) era impervia al drenaggio di liquidi dalla base encefalica, sia da un collaboratore di Willis, Richard Lower che, nel suo Tractatus de Corde (1669), osservò che entro l’infundibolo ipotalamico (la cui continuazione verso il basso costituisce il tronco nervoso neuroipofisario o tronco dell’infundibolo, attorno al quale si avvolge la porzione tuberale dell’adenoipofisi, dando luogo al peduncolo ipofisario), era contenuta della sostanza gelatinosa che ostruiva qualsiasi percolazione di “umori” (usò sperimentalmente il nero di china) dal 3° ventricolo all’ipofisi [6].

Sempre nel XVII secolo, Cartesio (De Homine, 1662) ipotizzò che lo stimolo luminoso, attraverso la retina e il chiasma ottico, potesse giungere al 3° ventricolo e da qui stimolare un corpicciolo dorsale, descritto per la prima volta da Galeno nel II secolo d.C. (c.d. \(\upkappa \upomega \upnu \upalpha \uprho \upiota \mbox{o}\upnu \) = piccola pigna), ossia l’epifisi, a rilasciare lo spirito animale (ossia il corrispondente dell’impulso nervoso) nei nervi motori somatici destinati ai muscoli degli arti, per produrre il movimento [6, 20]. Effettivamente, oggi sappiamo che la luce, attraverso il nucleo soprachiasmatico, stimola il nucleo abenulare laterale dell’epifisi, deputato al controllo di centri motori extrapiramidali del tronco cerebrale (sostanza nera). Se l’abenula laterale non viene più stimolata dal nucleo soprachiasmatico (privo di stimolo fotico, come nell’inversione giorno/notte) si svincola l’attività extrapiramidale troncoencefalica, con aumento dello stimolo locomotorio [23]. È quello che accade nei disturbi del ritmo sonno-veglia (jet lag, attività lavorative notturne) caratterizzati da irrequietezza nell’addormentamento/sonno. Quindi, Cartesio fornì la prima ipotesi di regolazione circadiana mediata dall’ipotalamo. Infine, nel XVIII secolo il clinico e anatomico francese Josef Lieutand, nel suo Essay Anatomique (1742) descrisse i vasi del peduncolo ipofisario (corrispondenti a vasi portali ipofisari lunghi) mentre Luigi Galvani (clinico ostetrico all’Università di Bologna e cattedratico di Anatomia Umana nella medesima Accademia delle Scienze, scopritore dell’elettricità animale), nel suo Disquisitiones Anatomicae circa Membranam Pituitariam (1767) provò definitivamente che le secrezioni mucose nasali non derivavano dal complesso 3° ventricolo-ipofisi ma erano il prodotto di ghiandole della mucosa nasale [24].

Concetti sul ruolo dell’ipotalamo nel XIX e XX secolo

Nella seconda metà del XIX secolo l’anatomico tedesco Hubert von Luscka (noto per la descrizione dei due fori laterali del tetto del IV ventricolo cerebrale per il ricircolo del liquor cefalorachidiano dalle cavità ventricolo-ependimali encefalo-spinali alle cisterne aracnoidee cerebrali), nel suo Der Hirnanhang und die Steißdrüse des Menschen (1860) descrisse il plesso capillare ipotalamico del sistema portale ipofisario, mentre nel 1894 l’istologo Santiago Ramon y Cajal (allievo di Aureliano Maestre de San Juan, che fornì la descrizione del primo caso certo di displasia olfatto-genitale o Sindrome di Kallman e maestro di Gregorio Marañón, padre dell’Endocrinologia in Spagna), usando il metodo di impregnazione argentica di Camillo Golgi (con lui premio Nobel per la Medicina nel 1906) descrisse nel ratto la connessione tra ipotalamo e neuroipofisi (tratto sopraottico-ipofisario). Cajal fu anche il primo che, nel 1911, produsse un’immagine dei taniciti del 3° ventricolo nel topo (Fig. 2g), le cellule ependimali specializzate che oggi sappiamo essere coinvolte nel controllo neuroendocrino delle secrezioni ipofisarie, come in corso di NTI – euthyroid sick syndrome, dove la ridotta FT4 circolante, tipica di questo disordine sistemico del metabolismo degli ormoni tiroidei, viene rapidamente convertita dai taniciti a FT3, passando poi nel liquor ventricolare e da qui al tessuto ipotalamico, con inibizione tonica dei neuroni tuberoinfundibolari a TRH (Fig. 2h) e secrezione di TSH inappropriatamente normale-bassa [20]. Le evidenze strutturali di un legame “funzionale” tra ipotalamo e ipofisi furono sostanziate nel 1928, dall’introduzione del concetto di “neurosecrezione” da parte dell’anatomico comparato tedesco Ernst Scharrer, che individuò le prime gocce di secreto ormonale nell’area preottica magnocellulare dell’ipotalamo dei pesci [25]. Poco dopo (1930), gli anatomici Gregor Popa e Una Fielding fornirono la prima descrizione completa del sistema ipotalamo-ipofisario nel feto umano, suggerendo che il flusso sanguigno fosse orientato dall’ipofisi verso l’ipotalamo e non l’opposto, come poi accettato a livello internazionale dopo gli esperimenti di Green e Harris sul ratto in vivo, nel 1949 [6, 20]. Tuttavia, il problema non è ancora completamente risolto perché, verso la fine degli anni ’80 del XX secolo il gruppo di Kjell Fuxe, al Karolinska Institutet di Stoccolma, osservò che l’incremento di TSH circolante nel ratto (come in corso di ipotiroidismo primitivo) riduceva lo stimolo noradrenergico centrale sul TRH, indicando l’esistenza di un feedback corto per la regolazione centrale dell’asse tiroideo, mediato da flusso retrogrado portale ipofisario [26]. Dalla metà del XX secolo all’inizio di questo XXI secolo il ruolo fisiologico e fisiopatologico dell’ipotalamo si è arricchito di numerosi concetti a complessità crescente, di cui le Tabelle 12 forniscono una prospettiva riassuntiva delle maggiori tappe di rilievo storico. La progressiva applicazione di questi nuovi concetti al ragionamento clinico promette soluzioni per alcuni dei maggiori disordini dell’ambito endocrino-metabolico di questo inizio millennio, tutt’ora irrisolti, come i disturbi compulsivo-ossessivi dell’alimentazione, l’alterata ricompensa edonica nell’obesità, la disforia di genere nella transessualità, il ruolo dello stress prenatale nella comparsa degli iperandrogenismi della donna, le alterazioni della risposta motoria preventiva e adattata nei dismetabolismi (diabetici di tipo 2, sindrome metabolica), l’inadeguatezza individuale alle terapie sostitutiva ormonale e immunomodulatoria/immunosoppressiva nelle malattie autoimmuni e tumori solidi [27].

Tabella 1 Principali tappe storiche inerenti il ruolo dell’ipotalamo nel controllo endocrino-metabolico dei mammiferi e dell’uomo
Tabella 2 Principali tappe storiche inerenti il ruolo dell’ipotalamo nel controllo endocrino-metabolico dei mammiferi e dell’uomo