Negli «appunti» di Aladár Kuncz (1885–1931) (Kuncz, 1939, 2014), che condivise la sorte dei prigionieri di guerra della Prima Guerra Mondiale, facendone poi un monumento della letteratura ungherese, finzione e realtà tratteggiano insieme uno specifico contesto di internamento, in cui civili e semplici cittadini stranieri provenienti dai Paesi nemici sono costretti a vivere l’esperienza della prigionia a causa dell’improvviso scoppio della guerra. Diversi studiosi si sono occupati del romanzo e del suo argomento: ricordiamo la ricerca sul campo di László Lőrinczi a Noirmoutier (Lőrinczi, 1975), seguita da quella di Éva Jeney, che ha curato l’ultima edizione del Monastero nero di Kuncz. Partendo dalla questione della «realtà e/o finzione» del Monastero nero di Aladár Kuncz, del quale nel proprio saggio correlato Éva Jeney esamina non solo la parte letteraria, ma anche quella teorica, storica, geografica e toponomastica, la studiosa giunge alla conclusione che l’opera può essere letta sia come documento storico che come testo letterario. La particolarità della storia della sua ricezione è che entrambi i tipi di lettura e interpretazione si sono formati indipendentemente l’uno dall’altro, in aree linguistiche diverse, ma la questione può giustamente interessare anche storici ungheresi e letterati francesi. Per esprimere meglio questo concetto, Jeney cita un brano della lettera di Kuncz a Oszkár Zádori datata 3 febbraio 1931: «[…] sto scrivendo un libro più grande, diciamo in forma di romanzo, anche se tutto ciò che conterrà è színvalóság, sul nostro comune internamento francese» (Kuncz, 1982, 117). Dentro e oltre la citazione, Éva Jeney sottolinea due elementi, ovvero: «Qui ‘diciamo’ significa ‘per esempio’, ‘poniamo che’”. Színvalóság è una parola ungherese composta da szín (colore) che suggerisce il significato di ‘mero’, ‘tutto’, esclusivamente insieme al sostantivo valóság (lett. realtà), ma in esso si celano la simulazione, atti apparentemente compiuti per ingannare gli altri, imitazione» (Jeney, 2017). Nella nota a piè di pagina del saggio di Jeney si legge: «Cfr. il termine ungherese színutanzás (mimetismo): la capacità di alcuni animali di adattare il colore del proprio corpo a quello dell’ambiente circostante» (Jeney, 2017). Tanto per fare un esempio dei principali elementi legati alla realtà cromatica, c’è il famoso ‘Passage de Goua’ sull’isola di Noirmoutier, ovvero il passaggio sotterraneo e via di fuga dell’edificio (castello-monastero) che conduce al mare: con la bassa marea si potrebbe raggiungere la terraferma francese, scrive Kuncz. Anche László Lőrinczi lo ha cercato sul posto—diverse persone ci hanno provato prima e dopo—ma da allora non è mai stato trovato. Ecco perché, per la prima volta, gli storici francesi hanno «creduto» in Kuncz e gli archeologi francesi, sulla base della descrizione dello scrittore transilvano, hanno cercato e cercato senza successo il leggendario percorso verso la libertà negli anni 30 e 40 del ‘900 (l’edizione francese del Monastero nero è stata pubblicata nel 1937).

Nel proprio saggio, Éva Jeney sottolinea che si apre una distanza temporale tra il tempo narrativo e il tempo degli «appunti», che rivaluta e reinterpreta le annotazioni e i documenti sotto forma di diario. I ricordi dello stato di prigionia cambiano attraverso i dettagli del passato, che precede l’internamento del narratore per un incontro continuo. L’autore descrive la propria ‘realtà’ utilizzando le coordinate spazio-temporali. Le esperienze sono collegate agli spazi, e questi spazi di esperienza sono immagazzinati in modo diverso: una sensazione di déjà-vu, un sogno, un ricordo. L’opera contiene riferimenti biografici e storici rintracciabili attraverso dati precisi e ricostruibili, nonché dati sullo spazio corrispondente.

Spazi aperti e chiusi: monastero/altopiano

Nella letteratura italiana non troviamo opere che possano eguagliare il romanzo di Kuncz, il quale può essere considerato pressoché unico nella sua epoca, perché la maggior parte delle opere letterarie europee sull’internamento dei civili sono più tipiche dell’epoca del Secondo dopoguerra, in particolare per quella che in italiano è meglio conosciuta come “letteratura della Shoah”, in cui si ascoltano le voci degli scrittori, così come quelle dei ‘civili’, di cui si leggono le testimonianze. Dunque, una letteratura che racconta e descrive l’esperienza di internamento dal particolare punto di vista dei civili, basti pensare—nella letteratura italiana—a Primo Levi. Nella letteratura italiana sulla Grande Guerra ci sono diversi esempi interessanti in cui le questioni della finzione-realtà e del ricordo dell’esperienza sono valide quanto in Aladár Kuncz. Queste opere, tuttavia, parlano tutte dell’esperienza diretta della guerra, dei soldati, degli ufficiali, delle battaglie, dei morti e del ‘circolo vizioso’ del vincitore e del vinto. Se vogliamo conoscere la vita degli internati, ciò è possibile sulla base della corrispondenza e dei diari, su cui torneremo dopo una breve digressione. Quella di Emilio Lussu è l’opera italiana più famosa di questo genere letterario. Si tratta di Un anno sull’altipiano, che racconta le esperienze militari dello scrittore sull’Altopiano di Asiago nel Nord Italia nel 1916–1917 (Lussu, 1945)Footnote 1. L’intero Altopiano di Asiago, che un tempo si trovava al confine tra Monarchia Austro-Ungarica e Regno d’Italia, si ritrovò così direttamente interessato dalle vicende della Grande Guerra: interi paesi, come la stessa città di Asiago, furono rasi al suolo. Nel 1916, durante l’Offensiva di Primavera, l’esercito austro-ungarico sfondò improvvisamente il fronte trentino, costringendo il Regio Esercito italiano ad evacuare frettolosamente la popolazione civile dai centri abitati. Questa azione militare è stata la più grande battaglia mai combattuta sui monti. Durante i tre anni di guerra sul fronte italiano si stima che non meno di 1,5 milioni di bombe siano state sganciate sull’Altopiano da vari eserciti, e che il numero dei soldati coinvolti nella battaglia abbia superato il milione. A causa dello scoppio della guerra, la popolazione dell’Altopiano fu costretta ad abbandonare le proprie abitazioni nel maggio 1916 (sottolineiamo che durante la guerra tutti i paesi dell’Altopiano, ad eccezione di quelli più meridionali, furono completamente rasi al suolo), per esser poi ridistribuita e ricollocata in tutta Italia. Oltre a perdere tutto, le decine di migliaia di sfollati—spesso disprezzati o respinti perché parlavano il dialetto locale, il cimbro germanico—in alcuni casi vennero anche incarcerati perché sospettati di spionaggio (si credeva che usassero la lingua del nemico). Così Emilio Lussu descrive il tragico destino dei profughi: «La strada ora si faceva ingombra di profughi. Sull’Altopiano di Asiago non era rimasta anima viva. La popolazione dei Sette Comuni si riversava sulla pianura, alla rinfusa, trascinando sui carri a buoi e sui muli, vecchi, donne, e bambini e quel poco di masserizie che aveva potuto salvare dalle case affrettatamente abbandonate al nemico. I contadini allontanati dalla loro terra erano come naufraghi e i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore e i carri lenti sembravano un accompagnamento funebre…» (Lussu, 1945, 10–11).

Oltre a Lussu, anche lo scrittore triestino Giani Stuparich (1891–1961) partecipò come volontario alla Prima Guerra Mondiale, insieme al fratello Carlo (Stuparich, 1931, 2015). La maggior parte degli intellettuali italiani accolse con grande entusiasmo lo scoppio della guerra, ma la loro disillusione fu ancora maggiore, come si può vedere dalle loro opere, come il Taccuino di Caporetto di Carlo Emilio Gadda, diario di guerra e di internamento del periodo compreso tra l’ottobre 1917 e aprile 1918, e un «memoriale» dedicato alla battaglia dell’Isonzo: il quaderno è stato pubblicato come opera postuma solo nel 1991, lo scrittore non ha voluto che fosse pubblicato fino alla propria morte. Un anno sull’Altipiano di Lussu venne scritto nel 1937Footnote 2: è una testimonianza molto importante, un documento prezioso sulla vita dei soldati italiani in trincea, che per prima nella letteratura italiana descrive l’irrazionalità della guerra, la sua assurdità, la gerarchia e la crudele disciplina militare applicata durante il conflitto.

Gli stessi temi universali della guerra si possono leggere nel Monastero nero da un punto di vista non militare, ma civile. Il Monastero Nero è stato scritto prima come romanzo e poi come documento storico: questo elemento, da parte ungherese, è stato accettato, mentre all’estero (soprattutto in Francia) è successo il contrario. L’opera di Emilio Lussu era considerata in Italia un romanzo storico, un documento storico e una memoria, ma in seguito, sulla base di un attento esame da parte degli studiosi, la sua opera è stata ridimensionata da questo punto di vista. In tal senso, è fondamentale l’importanza della testimonianza di chi ha assistito di persona al conflitto mondiale, disegnandone l’assurdità attraverso le proprie parole: «È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile!» (Lussu, 1945, 37).

Lussu critica anche le ‘cronache di guerra’ scritte a tavolino da giornalisti equiparati negativamente all’autore dell’Orlando furioso: «Ariosto era un po’ come i nostri giornalisti di guerra, e descrisse cento combattimenti senza averne visto uno solo» (Lussu, 1945, 115). Il suo lavoro rivela la profonda differenza tra ciò che è realmente accaduto ai soldati e ciò che il pubblico sapeva di loro; mostra in tutti i suoi aspetti drammatici quanto fosse inutilmente crudele la disciplina militare applicata ai poveri contadini analfabeti e quanto spesso fosse infondata la deferenza verso generali e alti ufficiali che agivano in modo assolutamente arbitrario. In un passaggio estremamente efficace ha descritto il terrore silenzioso degli istanti precedenti l’attacco, il drammatico abbandono della trincea ‘sicura’ per proiettarsi verso un mondo esterno sconosciuto, rischioso, indefinito, dove ad attenderli vi sono i fucili del nemico (Lussu, 1945, 37).

In queste due opere, come in altre opere contemporanee, la materializzazione del declino e della perdita di valori diventa «emblematica», come sottolinea Éva Jeney nel proprio saggio, aggiungendo che in questo senso potrebbe anche essere giustificato parlare di letteratura contro la guerra. La letteratura contro la guerra può essere classificata come letteratura di guerra solo in riferimento al suo contenuto satirico, al suo mondo rappresentato in modo grottesco o semplicemente alla sua equilibrata gerarchia di valori. Il genere spazia dalla corrispondenza e dai diari, dal campo di battaglia ai romanzi e alla poesia. Il vero bestseller della letteratura ungherese tra le due guerre mondiali non fu Il Monastero Nero, bensì Guarnigione siberiana, pubblicato a Kolozsvár/Cluj-Napoca da Rodion (Jakab) Markovits nel 1927 e tradotto in 14 lingue nel giro di soli due anni. Pubblicato in italiano nel 1931, da allora è stato considerato un’opera importante all’interno di questo genere, mentre è quasi scomparsa dal panorama della letteratura ungherese. Markovics ha scritto il proprio «romanzo-reportage collettivo», basato sulle proprie esperienze e su quelle dei suoi ex soldati sulle battaglie della Prima Guerra Mondiale, la vita quotidiana del prigioniero di guerra per sette anni nella Siberia orientale e le difficoltà del ritorno a casa. Non solo l’argomento, ma anche il modo in cui è scritto creano un effetto assurdo e satirico. Le copie del libro andavano esaurite una dopo l’altra, il pubblico era affamato di storie del genere. Quando il testo è stato pubblicato, il critico letterario Miksa Fenyő ha sottolineato nella rivista Nyugat che non si trattava di un ‘semplice’ bestseller: «Le poche pagine che ho letto del libro mi hanno scosso e catturato. Quando sono tornato a casa, la casa editrice Genius, che si è occupata della distribuzione del libro di Rodion Markovits, mi ha inviato l’opera in due volumi, e l’ho letto tutto intero come il più emozionante dei romanzi. Perché non è un romanzo; non ha un nucleo romanzesco, una storia ciclica che ritorna su se stessa, non si compone, non si tiene insieme. Poiché non fu composto, unito insieme, il milione e milioni di destini, che nell’estate del 1914 si avviarono verso le più terribili atrocità […]. E non è nemmeno un reportage, perché anche se il tutto è movimento, chi lo racconta non è un freddo cronista […], ci porta attraverso reti metalliche, strade russe e campi siberiani in modo tale che il nostro respiro si ferma per lo stupore, la simpatia e la profonda pietà. Non è un romanzo, un reportage, un diario, bensì il Leviatano stesso, mentre distendeva il suo corpo mostruoso attraverso il mondo, coprendolo di secoli di sofferenza in cinque anni. In particolare, sono stato preso dalla parte dello scritto di Rodion Markovits che riguarda il prigioniero di guerra; la prima parte riguarda lo scoppio della guerra, la campagna dei Carpazi, anche se si può applicare anche a questa l’aggettivo «magistrale», ma sembra essere più debole del racconto della prigionia. È come se lo scrittore non fosse ancora al corrente dell’evento in cui è stato coinvolto, come l’eroe di Stendhal nella battaglia di Waterloo. […] a partire dalla prigionia, l’interesse e la peculiarità del libro aumentano di pagina in pagina. Vorrei che molte persone leggessero quest’opera. Ottimo lavoro, lavoro umano» (Fenyő, 1928).

A livello ungherese ed europeo, tra le due guerre mondiali, sono state pubblicate diverse opere che raccontano queste esperienze in prima persona, in terza persona o come narrazione collettiva sotto forma di finzione, storia, memoriale o tutte insieme: dallo Švejk di Jaroslav Hašek ai romanzi di Ernest Hemingway Addio alle armi e di Erich Maria Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale. Oltre a queste, nel proprio saggio Éva Jeney cita alcune opere della letteratura ungherese: l’opera di Zoltán Franyó intitolata A kárpáti harcokról [Sulle battaglie dei Carpazi] (Budapest, 1915) riporta le vicende del campo di battaglia. Nello stesso anno, Egy komitácsi újságíró feljegyzései (Appunti di un giornalista komitácsi, Szatmár, 1915) furono pubblicati da Sándor Dénes, mentre il romanzo satirico orwelliano di Dániel Nagy, Cirkusz [Circo] (Kolozsvár/Cluj-Napoca, 1926), fu «immeritatamente escluso dal canone». Il romanzo contro la guerra di György Szántó Az ötszínű ember [L’uomo dai cinque colori] (Budapest, 1960; Bucarest, 1969) è ambientato durante il conflitto mondiale. Scritto nel 1927, non fu pubblicato fino al 1960.

Nonostante siano stati scritti dalla prospettiva di due mondi diversi, opposti (si potrebbe dire: ostili), i romanzi di Kuncz e quello di Lussu presentano diversi punti di vista comuni, per quanto riguarda le opere di letteratura di guerra: l’assurdità della guerra e le sue conseguenze, l’inutilità della disciplina e della gerarchia militare e il suo crudele ‘gioco’ Infine, ma non meno importante, è ciò che Éva Jeney evidenzia nel caso dell’autore ungherese, quando scrive che «Il Monastero Nero è anche un mnemotopos, un luogo della memoria» (Jeney, 2017, p. 80). Da un punto di vista italiano, accanto all’altopiano di Asiago di Lussu, questo mnemotopos, luogo della memoria, era e rimane Caporetto (oggi Kobarid, in Slovenia). Lo sfondamento di Caporetto del 1917 fu la più grande sconfitta militare italiana della Prima Guerra MondialeFootnote 3. L’espressione È stata una Caporetto in italiano significa ancora che qualcuno ha subito una gravissima sconfitta o disfatta. Da decenni, tra i ricercatori italiani in questo campo, storici e filologi si sono occupati dell’argomento. Il primo volume che li condusse in questa direzione fu quello di Leo Spitzer, che raccolse e pubblicò le lettere dei prigionieri di guerra italiani che lui stesso aveva salvato dalla censura (Spitzer, 1921; Renzi, 1976). Recentemente è stata pubblicata una seconda edizione dell’opera, a cura di Lorenzo Renzi, che vede la rielaborazione del testo base ad opera di Silvia Albesano e la collaborazione alla rielaborazione paratestuale del testo di altri studiosi (Renzi, 2016; Renzi, 2017, pp. 8–52). Leo Spitzer (1887–1960) è stato uno dei maggiori linguisti e critici letterari del Novecento, ed è solo per caso che materiale del genere sia giunto nelle mani dell’ormai riconosciuto massimo rappresentante della critica stilistica, forse l’unico studioso che abbia saputo cogliere l’importanza di questi testi che—nella continua lotta tra oralità e scrittura, convenzioni minuziosamente tratteggiate e timidi tentativi di esprimere sentimenti universali—raccontavano la stanca quotidianità dei campi di battaglia e i meccanismi disumanizzanti della guerra, la fame, l’amore, l’ironia, la lotta per una normalità impossibile. Nel settembre 1915 Leo Spitzer, allora ancora giovane filologo romanzo, assunse il ruolo di censore del Ministero della Guerra austro-ungarico. Il suo compito era quello di vagliare la corrispondenza dei detenuti italiani: una vasta e inedita quantità di lettere scritte da uomini e donne con poca o nessuna scolarizzazione, che spesso erano più a proprio agio con gli strumenti di lavoro che con la penna o il lapis, e quasi sempre erano più abili nel dialetto che nel parlare la lingua italiana. Eppure, hanno provato a scrivere, ed è stato perché il divario tra il mondo che conoscevano e il paesaggio umano che si trovavano dinanzi era troppo profondo e le loro vite troppo fragili di fronte all’enormità della guerra. Spitzer presenta il momento in cui la voce degli umili, solitamente relegata all’oralità dei dialetti, irrompe nella lingua italiana scritta, spinta dalle tragiche urgenze della guerra, della fame e della distanza. La loro apparizione ha segnato un punto di svolta per gli studi storici e linguistici, aprendo una prospettiva dal basso sulla guerra e sul linguaggio.

Nel suo volume Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915–1918 e nel successivo Perifrasi del concetto di fame. La lingua segreta dei prigionieri italiani nella Grande Guerra (Spitzer, 2019). Leo Spitzer apre un mondo e una prospettiva sulla Prima Guerra Mondiale che non riguardano la storia generale del grande conflitto, ma la storia degli uomini e delle donne che hanno preso parte agli eventi, con nomi e cognomi. Sono pagine di diario, lettere, dediche, che fanno rivivere la monumentale e tragica vicenda che ha travolto l’intero Paese. I prigionieri ad es. scrivono “moglie”, ma nelle lettere la chiamano “molie”, perché non conoscono bene l’italiano e preferiscono passare al loro dialetto. Storici e filologi che si sono finora occupati di questo argomento (tra cui Giovanna Procacci e Lorenzo Renzi—quest’ultimo curatore del volume di lettere di Leo Spitzer) sottolineano che la corrispondenza è più il ‘genere’ dei coscritti italiani, mentre i diari appartengono agli ufficiali. Gli ufficiali preferiscono scrivere diari, note, come il già citato scrittore italiano Carlo Emilio Gadda, che oltre al Giornale di guerra e di prigionia (Gadda, 2023) ha scritto anche il Taccuino di Caporetto (Gadda, 1991), in cui prepara un resoconto dettagliato della propria prigionia e al tempo stesso ricostruisce i due terribili giorni della disfatta di Caporetto, descrivendo ogni passo, albero, metro, ogni cintura di mitragliatrice, salita e discesa. Descrive brevemente sulla mappa la posizione del corpo di un soldato decapitato, racconta minuto per minuto le vicissitudini, i percorsi, le persone e le vicende di un episodio bellico, che ha un epilogo e che è incomprensibile dal suo punto di vista stendhaliano, poi la miseria della ritirata, il cibo gettato via, le truppe disperse, i ponti invalicabili sull’impraticabile Isonzo, la vergognosa cattura e le successive umiliazioni nel campo di Celle ad Hannover.

Riferendosi soprattutto alle storie della gente comune, lo storico italiano Antonio Gibelli ha pubblicato nel 2016 La guerra grande (Gibelli, 2014)Footnote 4. Nei racconti della gente comune non ci si occupa della Prima Guerra Mondiale, ma in forma di diario vengono raccolte varie testimonianze: lettere di contadini, artigiani e operai, donne e uomini, dirette i figli, mogli, mariti e genitori, per documentare le loro esperienze durante la Grande Guerra. Tutto è unito in un unico vortice e in un inesorabile evento di distruzione e morte. Graziano Mamone, che si occupa di storia recente e storia locale all’Università di Genova, ha approfondito questo argomento (Mamone, 2019, pp. 307–337). Avvalendosi degli archivi dell’ASLP, avvalendosi di materiali in gran parte inediti, in un saggio pubblicato nel 2019 passa in rassegna le testimonianze scritte (lettere, diari, memorie, persino ricette), analizzandone nel dettaglio la morfologia, il contenuto e il contesto della genesi. All’indomani della Prima Guerra Mondiale il numero dei prigionieri italiani era di circa 600mila, su 8 milioni e mezzo di prigionieri di guerra totali, una cifra di poco inferiore ai 10 milioni di caduti sul campo di battaglia. Solo in conseguenza della disfatta di Caporetto, furono quasi 300.000 i prigionieri italiani caduti in mano nemica e poi internati.

Così scriveva Carlo Verano, contadino ligure classe 1894, nella sua lettera alla moglie sulla disfatta di Caporetto: «Tutti gridavano eccoli eccoli dietro e noi a fuggire senza nessuno comando. Si vedeva da una parte e dall’altra far scoppiare i cannoni con la gelatina, si vedeva dar fuoco a tutto e noi sempre a fuggire. Sono le ore 9 e in una casa che domando un pezzo di polenta per carità e me la diedero. Un po’ di forza la presi ma le forze non sono ancora quelle per camminare all’ungo. A si vede che il Signore e la Madonna mi aiuta. Passando per quelle vie si vede donne uomini ragazzi soldati animali carelli carozze automobili tutti nel fuggire» (Gibelli, 2014, p. 177). Tra tragedia e “atmosfera carnevalesca”, al di là della retorica dello Stato nazione, come quasi ogni esponente del suo ceto, strappato alla famiglia e alla terra dei grandi proprietari terrieri per cui lavorava per combattere in una delle più importanti e tragiche fronti della Prima Guerra Mondiale, a Caporetto, ecco che l’unica preoccupazione di Carlo Verano è salvarsi la pelle. Nelle sue memorie ben si sofferma sullo sbandamento dell’esercito, sulla ritirata confusa e disorganizzata, a volte carnevalesca, dopo il crollo del fronte (Gibelli, 2023). Il saggio di Graziano Mamone è importante anche dal punto di vista delle fonti e della ricerca storica, perché partendo dagli anni Novanta del secolo scorso (quando l’argomento divenne di interesse per gli storici internazionali) e dal carteggio di Leo Spitzer, che secondo l’autore rappresenta un campo quasi inesplorato, ricostruisce il percorso che la storiografia ha compiuto su questo tema. Il focus del suo saggio è sulla psicologia del prigioniero, che viene studiata attraverso le parole chiave usate nelle lettere. Una delle parole chiave nascoste (perché spesso si autocensurava, come analizza a fondo Spitzer nel proprio secondo volume sulla fame dei carcerati) è proprio la fame. Le lettere gridano la fame, la paura, l’urlo, e nello stesso tempo mettono in luce lo sconvolgimento della realtà percettiva di ogni individuo, di fronte alla modernità della guerra, all’automatismo della morte e della distruzione, che si può leggere anche ‘liricamente’ in Veglia del grande poeta italiano Giuseppe Ungaretti:

  • Un’intera nottata

  • Buttato vicino a un compagno

  • Massacrato

  • Con la sua bocca

  • Digrignata

  • Volta al plenilunio

  • Con la congestione delle sue mani

  • Penetrata

  • Nel mio silenzio

  • Ho scritto

  • Lettere piene d’amore

  • Non sono mai stato

  • tanto

  • Attaccato alla vita

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

La «Cima Quattro», dove Ungaretti scrive la propria poesia, si trova sul Monte San Michele, una vetta dell’Altopiano di Doberdò, uno dei teatri di battaglia più cruenti della Prima Guerra Mondiale, in cui i soldati ungheresi si difesero contro l’attacco dell’esercito italiano. La Grande Guerra fu un evento traumatico, a seguito del quale si udirono prima le voci della letteratura concentrazionaria, e poi pian piano si costruì intorno al tema tutto un discorso critico, bibliografico e in parte filosofico. Negli ultimi decenni il tema della corrispondenza dei prigionieri dei campi di internamento della Prima Guerra Mondiale è diventato sempre più importante per gli storici e (come abbiamo visto) anche per i filologi. I testi delle lettere censurati, ma stratificati, in molti casi riportano veri e propri drammi umani. Con l’aiuto delle ricerche in tale ambito si può leggere una letteratura dai campi di internamento scritta da quasi nove milioni di detenuti (in realtà, spesso dettata da chi non sapeva scrivere): miliardi di lettere, messaggi e cartoline. Il motivo principale della sofferenza psichica dei soldati, oltre alla fame, è la privazione della libertà senza limiti di tempo, la lunga e impotente segregazione, e la continua e ripetuta esperienza di disillusione. Certo, ci sono differenze significative tra le esperienze di ufficiali e soldati, ma elementi correlati sono l’impazienza, la disperazione o lo sconforto in quella che sembra una lunga lotta contro se stessi. Nel campo di internamento cambia il sistema di valori, anche se alcuni si afferrano alla religione—soprattutto le anime più semplici—altri preferiscono abbandonarla. La fame, una terribile penuria di cibo perseguita il corpo e la mente del prigioniero. Fin dall’inizio, quando vengono trasportati nei campi di internamento in treno o in carri-bestiame, sperimentano la mancanza di cibo. Questa rimane un’ossessione che alcuni cercano di superare—come si legge nelle loro lettere—attraverso il ricordo di piatti familiari, di ricette, di certi pranzi e di occasioni liete (a dispetto della povertà e della semplicità, quasi sempre endemiche).

Non va inoltre dimenticato che l’Italia sostanzialmente abbandonò questi prigionieri, lasciando loro mancare anche il minimo indispensabile che avrebbe potuto garantirgli—più cibo e di migliore qualità—e che, inoltre, i prigionieri erano visti come ‘traditori’, e così definiti in una mostruosa campagna di menzogne. L’atto materiale dello scrivere è solo un gesto apparentemente ordinario. Significa sostanzialmente, invece, che gli strumenti devono essere acquisiti e, soprattutto, i detenuti devono essere in grado di scrivere: molti di loro leggono e scrivono male o sono completamente analfabeti, e se questi ultimi non trovano chi scriva per loro, in loro vece, non possono essere ascoltati, costretti a rimanere in silenzio. Chi non sa scrivere, invia cartoline, se può. Ci sono pochi privilegiati che riescono a inviare foto.

L’ultimo volume pubblicato sull’argomento in Italia è stato curato da Lorenzo Renzi (Renzi, 2021), uno dei maggiori linguisti e filologi italiani che, come abbiamo sottolineato sopra, ha curato il volume di lettere di Spitzer (Spitzer, 19762016) ed è lui stesso membro dell’Accademia della Crusca. In Lettere della Grande Guerra. Messaggi, Diari e Memorie dall’Italia e dal Mondo, Renzi esamina come questi uomini del fronte e dei campi di internamento fossero in grado di comunicare l’incomunicabile in un linguaggio rudimentale. I soldati semplici erano per lo più contadini, giovani, questa era la loro primissima esperienza al di fuori del mondo limitatissimo e astorico del passato rappresentato dalla vita nei loro villaggi, in provincia. L’autore rilegge la Prima Guerra Mondiale alla luce del sangue e dell’inchiostro, da Caporetto attraverso la Russia fino al fronte occidentale, esaminando lettere di soldati francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, inglesi, rumeni raccolte e analizzate. Le missive di questi ultimi, sebbene i loro ‘autori’ fossero essenzialmente analfabeti, avevano una particolarità: erano lettere in versi, che poi i soldati cantavano tra di loro e inviavano ai parentiFootnote 5. Gli argomenti delle lettere riguardano la sfera privata—come dimostrano molte lettere pervenute da italiani e da altri popoli: tutti gli interessi sono legati alla famiglia, ai lavori domestici, al raccolto, come anche agli animali o alla bottega (per chi li aveva). Se il soldato, anche se giovane, era il pater familias, è ovvio che volesse comunque decidere tutto da solo. Lorenzo Renzi scrive sul patriottismo che spesso sono stati i genitori—rimasti a casa—a esprimerlo, a sottolineare l’importanza di servire la patria. I giovani, specialmente i coscritti, erano molto più pragmatici. In base alla ricerca di Lorenzo Renzi, le ‘lettere internazionali’ (cioè le lettere di soldati appartenenti a Paesi diversi) contengono tutta una gamma di sentimenti ed emozioni: esaltazione (nei primi giorni di guerra), dolore (di fronte alla morte dei compagni), umiliazione (per coloro che cadono prigionieri), attesa, noia, nostalgia di casa, insofferenza per la propria condizione. In tutto ciò, il pacifismo e il patriottismo sono i due sentimenti principali che Renzi ha cercato maggiormente di seguire nel suo studio. Il secondo è diffuso, ed è il punto di partenza nel tipico soldato-contadino, che però viene spinto dai propri ufficiali al patriottismo. Riguardo al primo, all’inizio del Novecento, ancor prima della guerra, i giovani contadini o artigiani, soprattutto nelle città, erano attratti dal socialismo, o, al contrario, dal nazionalismo, che una parte dell’Europa scelse dopo la Prima Guerra Mondiale e tra i due conflitti, con le sue note conseguenze storiche.