Abstract
Lo scritto indaga quale significato assume il criterio della diligenza nella disciplina generale delle obbligazioni dettata dal codice civile italiano del 1942; e offre qualche spunto di riflessione, in particolare, sulla rilevanza giuridica delle clausole con cui i privati specificano il contenuto della diligenza, al fine di delimitare la valutazione discrezionale dell’interprete e rendere calcolabile l’applicazione della clausola generale nel caso concreto.
The paper investigates what significance the criterion of diligence assumes in the general discipline of obligations dictated by the Italian civil code of 1942; and offers some food for thought, in particular, on the legal relevance of the clauses with which private individuals specify the content of the diligence, in order to define the discretionary evaluation of the interpreter and make the application of the general clause calculable in the specific case.
Giovanni DiLorenzo is Associate Professor of Private Law and Vice Dean of the Faculty of Political Sciences, Sociology and Communication at the University of Rome “Sapienza” in Rome, Italy.
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Notes
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Chironi (1897), p. 51 e ss.
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Trabucchi (2017), p. 858 e Mengoni (1954), p. 187, il quale osserva che «[…] la diligenza non è, essa stessa, un comportamento ma piuttosto un modo di comportarsi, e quindi una misura del contenuto di un concreto dovere di prestazione». D’amico (1995), p. 26; Rodotà (1964), p. 540; Cannata (1991), p. 55; e da Breccia (1991), p. 25 e ss.
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- 5.
La distinzione è chiaramente tracciata da D’amico (1995), p. 26.
In tal senso, v., anche, Mengoni (1954), p. 204, secondo cui «[…] si deve riconoscere che la legge, con riguardo a certe prestazioni, riassume sotto il profilo della diligenza non solo il criterio di controllo del contegno del debitore di fronte a un evento che ha reso impossibile l’adempimento, ma anche il criterio per determinare concretamente l’oggetto dell’obbligazione».
- 6.
Gambino (2015), p. 207.
- 7.
Betti (1953), p. 133; e da D’amico (1995), p. 28.
Mengoni (1988), p. 1072, secondo cui il giudizio sulla impossibilità della prestazione andrebbe commisurato all’intero contenuto del rapporto obbligatorio, «[…] determinato in relazione sia al tipo sia alle circostanze concrete del contratto da cui deriva».
- 8.
D’amico (1995), p. 25.
Mengoni (1954), p. 198, secondo cui «[…] la diligenza non è solo un criterio di valutazione del contegno del debitore, in funzione dell’imputabilità di una causa sopravvenuta che ha reso impossibile lo scopo del rapporto obbligatorio, ma implica addirittura la determinazione concreta del contenuto dell’obbligo, di guisa che il dovere di diligenza viene coincidere col dovere di adempimento».
- 9.
Le parole riportate nel testo tra virgolette sono tratte dal testo n. 559 della relazione pubblicato in Codice civile. Testo e Relazione ministeriale, Roma, 1943, p. 117.
- 10.
- 11.
D’Amico (1995), p. 25.
- 12.
L’espressione è utilizzata efficacemente da Irti (2016), p. 8.
Sul punto, v. Sicchiero (2017), p. 422, il quale rileva che «[…] il problema della diligenza nell’adempimento è che la regola è stata oggetto di una finzione: la si è considerata già efficiente ed operativa, come se fosse già stata completa e pronta all’uso, in forza del richiamo a concetti che sono invece evanescenti».
- 13.
Cian (1963), pag. 177.
- 14.
Per la giurisprudenza di legittimità, v., ex multis, Cass., 22 marzo 2017, n. 7309; Cass., 16 febbraio 2016 n. 2954; Cass., 14 luglio 2015 n. 14664.
E per la giurisprudenza delle Corti di merito, in epoca più recente, v. Trib. Milano, 2 agosto 2018, n. 8552; Trib. Roma, 7 luglio 2017, n. 13877; Trib. Palermo, 22 febbraio 2007 n. 2457.
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In tal senso, con specifico riferimento alla condotta diligente dell’avvocato, Cass., 16 febbraio 2016 n. 2954; Cass., 8 settembre 2015 n. 17758.
- 17.
Cass., 8 settembre 2015 n. 17758, è nel senso che «la verifica della diligenza dell’avvocato nell’espletamento dell’obbligazione - che è di regola di mezzi e non di risultato - va compiuta attraverso un giudizio prognostico circa l’attività astrattamente esigibile dal legale tenendo conto della adozione di quei mezzi difensivi che, al momento del conferimento dell’incarico professionale e, quindi, dell’instaurazione del giudizio, dovevano apparire funzionali alla migliore tutela dell’interesse della parte dal medesimo difesa».
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È l’aggettivo utilizzato, anche, da D’Amico, op. cit., p. 28.
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Con tale espressione si intende far riferimento, indifferentemente, ai codici «deontologici» il cui contenuto non sarebbe circoscritto a regole morali, ma abbraccerebbe tutta la materia, ivi compresi gli aspetti organizzativi.
L’espressione è adoperata in tal senso da Del Prato (2014), p. 764 e ss.; e da Alpa (2013), p. 436 ss.
- 21.
Il termine «delegificazione» è, a tale riguardo, adoperato, anche, per identificare quelle regole provenienti da fonti di rango secondarie dettate da autorità amministrative indipendenti.
Sul punto, senza alcuna pretesa di completezza considerato l’ingente numero di contributi dedicati al tema, v. Pizzorusso (1999), p. 492 ss.; Del Prato (2008), p. 257 ss.
- 22.
Del Prato (2014), pag. 771, osserva che «[…] i codici deontologici integrano le clausole generali della correttezza, della buona fede e della diligenza nell’adempimento delle obbligazioni, ma la loro efficacia va ricavata dalle norme primarie che legittimano l’ordine professionale a dettare regole». Cerdonio Chiarimonte (2012), p. 695 ss.
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Ribadito per i codici di condotta dall’art. 40 del Regolamento 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016.
- 24.
Ri. Tuccillo (2017), p. 127.
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Potrebbero venire in rilievo anche le regole dettate a protezione del consumatore allorché, in relazione alle circostanze di fatto, la disciplina dettata dal codice del consumo risulti applicabile al contratto concluso tra il professionista e cliente.
- 28.
Codice civile. Testo e Relazione ministeriale, cit., p. 117.
- 29.
Del Prato (2014), p. 772.
Non pare condurre ad un esito differente la differente premessa concettuale che attribuisce agli usi negoziali, non già natura contrattuale, ma normativa, identificandoli con le regole consuetudinarie. Del pari, nella segnata prospettiva, la clausola che rinvii all’uso normativo implicherebbe, in ragione della propria natura contrattuale, l’applicazione dei criteri interpretativi del contratto e non della legge; la non deducibilità in cassazione della violazione delle regole deontologiche; l’inapplicabilità del principio jura novit curia, perché è onere della parte fornire la prova dell’esistenza della prassi; la prevalenza della regola deontologica, così come delle clausole contrattuali, sulle norme derogabili.
Sul tema generale della rilevanza giuridica della decisione privata il cui contenuto sia determinato per relationem alla disciplina di legge, v. Confortini (1988), p. 249 e, specificamente, pag. 255. L’autore propone di distinguere tra il rinvio recettizio e rinvio non recettizio. Nel primo caso, l’atto privato contiene una clausola con la quale la parte fa proprio il testo della norma dettata dalla legge; nel secondo caso, invece, la parte, rinunciando a determinare direttamente il contenuto della disciplina, adotta e si assoggetta alle regole poste dalla legge.
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Di Lorenzo, G. (2024). Spunti di riflessione in tema di diligenza e autonomia privata nel diritto privato italiano. In: Heidemann, M. (eds) The Transformation of Private Law – Principles of Contract and Tort as European and International Law. LCF Studies in Commercial and Financial Law, vol 2. Springer, Cham. https://doi.org/10.1007/978-3-031-28497-7_23
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