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Adulterare l’India: una prospettiva antropologica sui racconti di viaggio di Moravia e Pasolini

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Abstract

Nell’ambito della produzione/ricezione testuale il concetto di “adulteramento” può assumere valenze diverse. Tuttavia, va rilevato che il suo utilizzo può far emergere delle criticità: se impiegato per descrivere un qualche “cambiamento” nel processo di testualizzazione, ossia di produzione di un testo, esso pare individuare la presa di distanza rispetto a un’idea o a una forma “originaria”, ovvero pone il problema del rapporto fra testo e contesto e fra autenticità e copia. Se lo si osserva da una prospettiva antropologica e semiotica, il concetto di adulteramento implica perciò almeno un’“alterità” cui rivolgersi e un’“autenticità” rispetto a cui prendere le distanze, ponendo dei problemi di carattere epistemologico che rendono necessaria una contestualizzazione. In questa sede si avanza quindi un’ipotesi di lavoro che consiste nell’indagare un’eventuale e particolare forma di “adulteramento”, attraverso lo studio di due testi. Si tratta di due racconti di viaggio, Un’idea dell’India, di Moravia e L’odore dell’India, di Pasolini, scritti dopo un tour effettuato insieme in India tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961. Entrambi i reportage si possono considerare due possibili visioni del subcontinente asiatico, due narrazioni che si situano in modo diverso rispetto a una certa stereotipata rappresentazione diffusa in Occidente, che tende a connotare l’India come Oriente esotico e spirituale, meta di pellegrinaggio intellettuale oltre che religioso. L’analisi di alcune parti significative di questi testi viene condotta utilizzando un approccio insieme antropologico e semiotico, allo scopo di rintracciare le modalità attraverso cui, nel processo di testualizzazione, entrambi gli autori costruiscono una rappresentazione particolare della loro esperienza di viaggio e quindi due immagini (culturalmente determinate) dello stesso luogo-destinazione che oscillano fra conferme e allontanamenti dallo stereotipo, operando una sorta di “adulteramento”, sia rispetto all’immagine disponibile nella propria cultura di partenza, sia rispetto alla progettualità paratestuale espressa nei rispettivi titoli dei racconti.

Abstract

In the scope of textual production/reception the “adulterous” concept adopts a plurality of meanings. Upon closer scrutiny, one notes interesting enigmas: when the term is used to describe a “change” in the textualization process (a modified text production), it suggests a distancing from an “original” idea or from an “initial” shape. From an anthropological and semiotic perspective, such issues bear epistemological relevance: indeed, the very concept of “adulterous” invokes, at the very least, some sort of “Otherness” and, related thereto, a detachment, as it were, from “Authenticity”. In other terms, in order to define, circumscribe or apply the notion of “adulterous”, as applied to texts, there must be an established context. This paper aims to investigate a possible and particular form of adultery/adulteration, via the analysis of two texts, one by Moravia, “Un’idea dell’India”, and the other by Pasolini, “L’odore dell’India”. Both writers produced their “reportage” following a long journey to, and stay in, India, a voyage they undertook together, in the early 60’s. The two resultant travel stories can be considered two possible visions of India—both different from patent Western representations, wherein, all too often, the Asiatic nation is portrayed as an exotic and spiritual destination in the East well-suited to intellectual or religious pilgrimages. By means of a hybridized anthropological and semiotic approach, this study focuses on several of the most significant outcomes so as to identify the means by which each writer constructs a particular representation of his travel experience. Culturally-determined (or over-determined) images of the same place-destination oscillate between confirmation and denial of Western cultural models pertinent to perspectives of India. In this sense, the writers create a sort of “adulterous” (or “adulterated”) recounting, both of their culture and of the paratextual project expressed (even betrayed) through titles and texts.

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Notes

  1. Il testo di Clifford qui citato è contenuto nell’introduzione de I frutti puri impazziscono e fa riferimento al capitolo dedicato dall’antropologo a un classico della critica culturale, l’Orientalism di Said. In esso viene discusso l’impianto epistemologico del celebre studioso palestinese che, secondo Clifford, farebbe registrare una sorta di paradosso: Said conduce la sua critica alla costruzione di un’immagine dell’Oriente da parte occidentale dichiarando spesso la sua identità palestinese ma utilizzando spunti di riflessioni e possibilità teoriche offerte dalla poesia e dalla filosofia occidentali (e in particolare la filosofia di tradizione francese). Così viene sintetizzato questo processo nella parte conclusiva del saggio: «L’inquieto rovello di Orientalism, le sue ambivalenze metodologiche sono caratteristica di una sempre più generale esperienza planetaria. […] La complessa posizione critica del suo autore può considerarsi, in questo senso, rappresentativa. Nazionalista palestinese educato in Egitto e negli Stati Uniti, studioso intimamente imbevuto di umanismo europeo e, oggi, professore d’inglese e di letteratura comparata alla Columbia University, Said scrive da «orientale», ma solo per dissolvere tale categoria. Scrive come un palestinese, ma non si basa su una identità o una cultura specificamente palestinesi, attingendo ai poeti europei per dare espressione ai valori essenziali e alla filosofia francese per gli strumenti analitici. Critico radicale di una componente fondamentale della tradizione culturale occidentale, Said deriva la maggior parte dei suoi modelli da questa stessa tradizione.» (Clifford 2010, p. 316).

  2. Il problema dell’“autenticità” riguarda anche la nozione di “tradizione” e l’ambito che essa circoscrive: in questo senso la tradizione è stata spesso connotata da una dimensione di autenticità. Tuttavia, il famoso studio di Hobsbawm e Ranger mette in guardia su questo tipo di equivalenza, dimostrando come la stessa tradizione venga in molti casi “inventata” o “reinventata”, rendendo meno ovvia la questione di ciò che è possibile definire “autentico” (Cfr. Hobsbawm and Ranger 2002).

  3. Va ricordato che il fenomeno turistico è strettamente connesso, dal punto di vista socio-antropologico, con il “tempo libero”, le “ferie”, ossia il tempo liberato dal lavoro organizzato tipico della società occidentale. Nell’ambito delle scienze sociali il tema ha suscitato una riflessione a largo raggio, accompagnata da un dibattito vivace: si veda almeno Dumazedier (1974), Mac Cannell (1999), Urry (1994).

  4. Da questo punto di vista, ad esempio, l’uso largamente condiviso di scattare fotografie durante un viaggio—e in ciò la fotografia digitale ha moltiplicato in modo esponenziale le potenzialità offerte dal mezzo—come prova dell’“essere stati” in un determinato luogo è ormai parte costitutiva dell’esperienza stessa del viaggiare. La riflessione antropologica di Augé, per esempio, si è concentrata in diverse occasioni sull’importanza dell’immagine e della fotografia anche nei contesti turistici (cfr. Augé 1999, 2001). Appaiono antropologicamente interessanti non solo i risvolti simbolici relativi alla condivisione-rievocazione degli scatti con la “comunità di partenza” degli individui-turisti una volta terminato il viaggio, ma anche il particolare tipo di narrazione che le immagini-prova permettono di costruire.

  5. Tale spazialità, s’intende, può essere “fisica” ma anche “mentale”. Gli autori di un racconto di viaggio, solitamente, non compiono solo uno spostamento nello spazio concreto ma, ancor di più, affrontano uno spostamento in senso più lato, soprattutto metaforico. Il processo attraverso cui viene ricreato il senso di questo spostamento richiede l’intervento di una produzione simbolica complessa in grado di attingere a modelli culturali adatti, oltre che riproporli.

  6. Per una diffusa trattazione dedicata al paratesto cfr. Genette 1989.

  7. Con tutta probabilità, dalla lettura dei loro testi, il viaggio di Moravia e Pasolini (durato oltre un mese e con molte tappe raggiunte) è inquadrabile in un senso molto più ampio che all’interno di classiche coordinate “turistiche”. Anche al di là questa considerazione, come ricorda Tornitore, «lo spunto per questo viaggio in India, assolutamente pretestuale e rimasto sullo sfondo (addirittura per nulla menzionato da Moravia), deve essere stato presumibilmente un invito a partecipare a un convegno per il centenario di un invito alla commemorazione del poeta Tangore, che ha coinvolto anche Pasolini: “Sono andato in India proprio col pretesto di un invito alla commemorazione del poeta Tangore (Pasolini, p. 85)» (Tornitore 2010, p. XVII).

  8. A questo proposito si può ricordare come di recente Goody abbia mostrato, in una prospettiva di storia della cultura, la quantità e la qualità di questi contatti plurisecolari, parlando più propriamente di “alternanza” fra Oriente e Occidente e attaccando l’idea che a partire dal Rinascimento l’Occidente abbia acquisito un qualche primato sull’Oriente: «È avvenuta un’oscillazione tra una società e l’altra, in parte perché il processo di recupero, in qualunque modo avvenga, è sempre fonte di stimolo, perciò chi in un certo momento rimane indietro successivamente può distanziare gli altri. Né l’Occidente, né l’Oriente hanno avuto un carattere di eccezionalità da questo punto di vista. Erano sistemi in comunicazione tra loro, che assumevano a turno un ruolo dominante. […] Vi furono periodi di superiorità temporanea che diedero origine a un’alternanza, ma nessuna forma di supremazia permanente di una civiltà sull’altra» (Goody 2010: 155–167).

  9. Questo processo conoscitivo ricorda quanto affermato dall’antropologo interpretativista Geertz, secondo cui il ricercatore sul campo, nonché autore della propria etnografia, deve continuamente mediare fra concetti “vicini” e “lontani” dall’esperienza del nativo-informatore (e che in taluni casi coincidono con quelli del ricercatore stesso), nel tentativo di interpretare i fatti culturali e poterne così rendere conto nella propria etnografia (cfr. Geertz 1998).

  10. In questa sede mi sono occupato soprattutto del rapporto fra testo e contesto, nonché del rapporto fra autenticità e copia attraverso il concetto di “adulteramento”. Mi riservo, in un futuro lavoro, di sviluppare un terzo punto essenziale a questo riguardo: il posizionamento interno ed esterno relativo a una cultura, nodo problematico che è di particolare pertinenza antropologica. Per quanto riguarda questo terzo punto si veda, più in generale, la cosiddetta controversia Sahlins/Obeyesekere, considerando sia il testo di partenza di Sahlins, Islands of History, sia quello di risposta di Obeyesekere, The Apotheosis of Captain Cook: European Mythmaking in the Pacific, e la successiva ‘replica’ di Sahlins a quest’ultimo, How “Natives” Think: About Captain Cook, For Example (Sahlins 1985, 1995; Obeyesekere 1997).

  11. Quest’uso è simile a quello che ne hanno fatto gli antropologi nei testi di molte etnografie “classiche”, prima che fosse messa fortemente in dubbio la legittimità di una generalizzazione così ampia (si conoscono, si intervistano pochi informatori ma nel testo etnografico si “collettivizzano” questi soggetti con un termine che indica tutto un gruppo).

  12. A questo proposito, come fa notare Taverna nel caso di traduzioni tra diverse tipologie di testi, ove è più corretto parlare di “transcodificazione”: «Les deux figures de la trans-codification (le traducteur et l’interprète) sont obligées, bon gré mal gré, d’opérer un choix qui privilégie, à l’intérieur de plusieurs paradigmes (de départ et d’arrivée), des mécanismes constitutifs du texte à transposer (les invariants) et en néglige d’autres (les variants), et qui permet également de re-créer une vision du monde et une poétique spécifiques. De ce point de vue, une réflexion sur la « réception » ne peut pas faire abstraction d’un renvoi à l’autre pôle de la communication – la « production » –, car les deux interagissent entre eux […] La communication entre deux individus, ainsi que celle entre deux cultures […] doit être entendue comme une opération complexe qui prévoit, aussi bien du côté de la production que de celui la réception, un schéma narratif minimal à l’intérieur duquel se situent la recherche, l’analyse, l’acquisition et finalement la communication elle-même» (Taverna 2007, pp. 187–188).

  13. A differenza del rituale delle società tradizionali, il pellegrinaggio presenterebbe carattere di volontarietà, lasciando all’individuo che decide di intraprenderlo un certo grado di libertà, per esempio sui tempi e sulle modalità. Ciò, secondo lo studioso inglese, comporta anche una revisione dell’idea di liminalità di Van Gennep, in modo da restituire le peculiarità di questa forma di devozione: «Dal momento che il pellegrinaggio è volontario e non è un meccanismo sociale obbligatorio, per marcare il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno stato a un altro all’interno della sfera mondana, probabilmente è preferibile considerarlo “liminoide” o “quasi liminale”, piuttosto che “liminale” nell’accezione di Van Gennep» (Turner e Turner 1997, p. 80).

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Sabato, G. Adulterare l’India: una prospettiva antropologica sui racconti di viaggio di Moravia e Pasolini. Neohelicon 40, 117–143 (2013). https://doi.org/10.1007/s11059-013-0176-y

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